Racconta Gaetano Salvemini nelle Memorie
di un fuoriuscito (1960) come, nel corso di una delle sue prime “vacanze”
(come le avrebbe definite Berlusconi) nelle istituzioni carcerarie fasciste,
gli fosse capitato di conoscere, fra gli altri, un operaio comunista, una
figura con cui, negli anni ’20 del secolo scorso, gli intellettuali democratici,
per quanto aperti, non avevano particolare dimestichezza, e di essersi
stupito, ma non scandalizzato, dal sentirgli dire “Speriamo che dal Purgatorio
l’anima buona di Lenin preghi per noi”. Ricordo che a me, che
leggevo quel libro da studente, più di quaranta anni fa, quel piccolo esempio
di sincretismo spontaneo servì per capire, in tema di dinamiche del fenomeno
religioso, più di quanto ci spiegava settimanalmente il celebre don Giussani,
che nel liceo che frequentavo fungeva da catechista. Per quel prete
di belle speranze, che, più che alla cultura teologica degli alunni, badava
forse alla possibilità di reclutare i più promettenti nella sua “Gioventù
studentesca”, nucleo e origine della futura “Comunione e Liberazione”,
il laicismo liberale alla Salvemini era il nemico per eccellenza e l’esperienza
religiosa aveva senso solo in quanto adesione al messaggio della chiesa
e come impegno totalizzante nelle sue fila. La fede di quell’operaio
gli sarebbe sembrata, con ogni probabilità, promettente dal punto di vista
di una possibile cooptazione, ma, in sé, non le avrebbe concesso neanche
la dignità che si riconosce alle eresie. Che la gente abbia una certa
qual propensione a crearsi da sé i propri dei non era un concetto che potesse
interessare a chi predicava l’accettazione dell’Autorità (con la maiuscola)
come il primo passo verso la Salvezza.
Tutto
questo mi è tornato in mente un paio di settimane fa, quando ho letto,
nella rubrica di Adriana Zarri sul “manifesto”, di una lettera inviata
al Che Guevara dal teologo e scrittore brasiliano Frei Betto. Dico
lettera, ma in realtà si tratta di una vera e propria preghiera, perché,
dopo aver riflettuto su quanto fosse stata vana la speranza dei carnefici
di condannare all’oblio la sua memoria, ed essersi chiesto quanto sarebbe
stata diversa la storia del socialismo se si fosse dato più ascolto alle
sue parole, l’autore conclude con un “Da dove stai, caro Che, benedici
tutti noi che siamo in comunione con i tuoi ideali e con le tue speranze.
Benedici anche quelli che hanno ceduto alla stanchezza e si sono
imborghesiti, o hanno fatto della lotta una professione a proprio beneficio.
Benedici quelli che hanno vergogna a confessarsi di sinistra … Soprattutto
benedici tutti noi che, di fronte a tanta miseria, sappiamo che non ci
resta altra vocazione che convertire cuori e menti, rivoluzionare società
e continenti.” Insomma, con una vera e propria beatificazione.
Mah.
In linea di massima, io le beatificazioni le lascerei volentieri
al papa, cui non fa difetto, in materia, lo zelo. Personalmente non
sono sicurissimo che il Che stia da qualche parte da dove possa (o voglia)
benedirci tutti – né è questa, naturalmente, la sede per discuterne –
e non sono neanche convinto che la storia del socialismo sarebbe stata
così diversa se si fosse dato ascolto alle sue parole. In realtà
conosco poco della sua opera e dovrei decidermi, un giorno o l’altro,
a leggere i volumi cui ha dedicato tanto lavoro la mia amica Adriana Chiaia.
Ma essendo pur sempre il comandante Ernesto Guevara de la Serna una
delle icone della mia generazione, e quindi, in un certo senso, uno dei
miei maestri, accanto a Salvemini e a qualcun altro che certo si stupirebbe
di trovarsi in sua compagnia, non negherò che quelle parole un filo mi
abbiano commosso. “Di fronte a tanta miseria”, come scrive Frei
Betto, fa bene “sentirsi in comunione”, se così vogliamo esprimerci,
con gli ideali e le speranze di una figura così carismatica.
Certo,
nella società dei media e dello spettacolo, tutto ci insegna a diffidare
dai portatori di un carisma troppo aggressivo. Ma il Che fu – almeno
a giudicare da quel paio di biografie serie che circolano – un uomo disinteressato
e modesto, con un forte senso del dovere, uno scarso interesse per l’autorità
e una scarsissima attenzione – soprattutto – a quella che oggi si definisce
l’immagine. Un uomo, tutto sommato, che non avrebbe meritato di
finire in una preghiera non meno che nella pubblicità di una compagnia
aerea, ma che appunto per questo merita di essere ricordato con gratitudine
da tutti coloro che, come noi, in questo mondo di tromboni e palloni gonfiati
si trovano un po’ a disagio.
Il che è forse contraddittorio, ma è
di queste contraddizioni che viviamo tutti e ormai dovremmo esserci abituati.
23.11.’03