Biancaneve e il Duca di Mantova

La caccia | Trasmessa il: 01/09/2011


    Non so a quanti di voi sia capitato, domenica scorsa, di seguire in televisione, su Rai1, “Biancaneve e i sette nani” in prima serata e, subito dopo, il “Rigoletto” di Verdi, interpretato da Placido Domingo e Olga Peretyalko per la regia di Marco Bellocchio. I due spettacoli non si rivolgevano precisamente allo stesso target, ma godono entrambi, ciascuno nel proprio campo, di una fama di eccellenza che può attirare e poi, sotto le feste, può capitare di accasciarsi dinnanzi al televisore senza avere la forza di agire con il telecomando e di doversi così sorbire, target e non target, le più singolari combinazioni. Entrambe le opere, del resto, possono essere considerate delle tipiche storie di gelosia a tinte forti – la gelosia della Regina Malvagia per la figliastra nel primo caso e nel secondo quella dell'irascibile buffone di corte nei confronti della figlia, che si industria a tenere ben chiusa in casa senza darle alcuna possibilità di vivere una vita sua – per cui l'accostamento è meno peregrino di quanto possa sembrare.
    In ogni caso, chi fosse riuscito a mantenersi in stato di veglia fin verso la metà del primo atto del “Rigoletto”, avrà notato che, oltre a questa generica affinità tematica, le due opere hanno in comune, fin quasi nei particolari, una stessa scena: quella in cui le due protagoniste fan conoscenza dei rispettivi spasimanti (chiamiamoli pure così). Entrambe stanno effondendo in musica il desiderio di conoscere l'uomo dei propri sogni, che Biancaneve, poveretta, finora si è limitata a immaginare, mentre Gilda ha avuto concreta occasione di notare dal vivo tra i fedeli in una chiesa, l'unico luogo che il padre severo le permette di frequentare. Ed entrambe ignorano che il soggetto in questione è, a loro insaputa, presente: il Principe perché ha scavalcato non visto il muro del giardino, il Duca perché è stato introdotto in casa dall'infida governante Giovanna, all'uopo prezzolata. Tutte e due, comunque, anticipano ad alta voce il momento in cui potranno rivolgersi con un bel “T'amo” ai loro belli, e ciascuna delle due fa appena in tempo a pronunciare la sillaba “T'a” che il “mo” successivo viene inopinatamente surrogato dall'interessato, comparso a sorpresa alle sue spalle. Scappano entrambe, naturalmente, come si addice a due giovinette dabbene, ma altrettanto naturalmente la loro fuga si arresta pochi istanti dopo e il resto si sa. In seguito, essendo la favola un genere diverso dal melodramma, il loro destino si diversificherà e, a differenza di Biancaneve e del Principe, Gilda e il Duca non vivranno felici e contenti, almeno non tutti e due. Ma questo, suppongo, lo saprete già.
    Il parallelismo è abbastanza impressionante e potrebbe indurre un filologo di quelli di vecchia scuola a supporre un caso di derivazione diretta, nel qual caso, non essendo previsto nella favola originale dei fratelli Grimm un incontro preliminare tra Biancaneve e il Principe Azzurro, la fonte, per motivi di priorità cronologica, dovrebbe essere identificata nell'opera di Verdi (o nel dramma di Victor Hugo cui essa è, più o meno liberamente, ispirata). L'ipotesi non è impossibile: l'opera italiana, ai tempi, era largamente diffusa negli Stati Uniti ed è abbastanza probabile che tra le centinaia di collaboratori dello studio Disney di Burbank ce ne fosse almeno uno che conosceva il “Rigoletto”. Ed è inutile obiettare che difficilmente un'opera così trucida può essere alla base di un soave cartoon per bambini come è generalmente considerato “Biancaneve e i sette nani”, perché, a ben guardare, quel film, sotto la superficie zuccherosa, esibisce abbastanza truculenze da terrorizzare – come di fatto credo abbia terrorizzato – intere generazioni di bimbi. Gli spasimi e le finalità del Principe Azzurro, certo, possono sembrare abbastanza diversi da quelli del Duca di Mantova, ma tutti sappiamo che l'animo umano è pieno di misteri e non è detto che anche il primo non abbia qualche peccatuccio da farsi perdonare. Nella penultima scena, per dirne una, sembra rivelare una vaga inclinazione alla necrofilia.
    Ma forse questa ingegnosa costruzione non è indispensabile. Forse non siamo davanti a un caso di filiazione diretta di un'opera dall'altra, ma piuttosto a un esempio di derivazione da una fonte comune provvisoriamente ignota. Ed è vero che questo della fonte comune ignota è un espediente cui ricorrono normalmente i filologi quando non sanno quali altri pesci pigliare, ma una cosa almeno significa (e ne autorizza l'uso): la constatazione che le due opere in questione sono compatibili tra loro, che condividono un certo numero di convenzioni e stilemi che le rendono comprensibili ai loro destinatari, per non dire dei valori cui costoro improntano, o dovrebbero improntare, la propria esistenza. Diciamo che, come minimo, rispecchiano univocamente la cultura dell'epoca e della società che le ha prodotte.
    Da questo punto di vista, la storia di Biancaneve e quella di Gilda, che risalgono, nella forma di cui ci stiamo occupando, rispettivamente al 1937 e al 1851 (sono quindi, in un certo senso, quasi contemporanee) rappresentano le due facce della stessa medaglia, si presentano come due applicazioni leggermente diverse del medesimo paradigma su come debbano (o, all'epoca, dovessero) essere organizzati i rapporti amorosi. La loro ideologia, stringi stringi, è quella della donna che sogna e invoca e dell'uomo che si fa avanti. Ed è noto che in questo gioco dell'offrirsi e del prendere ci sono abbastanza variabili da generare un numero infinito di trame, nel senso che non si sa mai e le possibilità di pescare dal mazzo un Principe Azzurro sono più o meno le stesse che ti tocchi il Duca di Mantova o qualche suo pari.
    Oggi tutto questo dovrebbe essere superato dalla nuova morale sessuale e dalla liberazione dei ruoli che essa comporta. Sarà, ma qualche riserva sembra pur lecito esprimerla, e il fatto che a dei bambini innocenti, che possono avere qualche difficoltà a distinguere il fiabesco dal reale, si continui a proporre la storia di Biancaneve non può che preoccupare gli spiriti pensosi. Tanto più che dietro alle due figure femminili, quasi a motivare il loro prorompente desiderio di qualcosa d'altro, si staglia una figura parentale oppressiva (non dimentichiamo che la Regina Malvagia è la matrigna della povera principessa, cui impone segregazione e corvées varie, proprio come fa Rigoletto con Gilda) e non sembra che la nuova morale corrente comporti automaticamente l'abolizione dei genitori autoritari e oppressivi. Di quelli, al contrario, oggi come ieri non si sente penuria.
    Poi, certo, la sorte può rivelarsi benevola e la storia può finir bene. Ma solo nelle favole, naturalmente, e anche in quelle con le dovute riserve. Ci sarà ben un motivo per cui, assistendo al finale del cartone animato di Walt Disney, tutti gli spettatori, bambini e adulti, non riescono a non provare una fitta di malinconia nel vedere l'eroina che, per un insulso bietolone come il Principe, lascia la casetta del bosco e tutti quei simpatici nani. Sì, erano un po' piccoletti, certo, ma tanto cari e il numero, comunque, faceva aggio sulla statura. Forse una vita con loro sarebbe stata più divertente. Ma è appunto la categoria del divertente quella da cui opere di questo tipo soprattutto diffidano. Dei nostri quattro personaggi l'unico a divertirsi davvero, quello che, come recita il titolo originale di Victor Hugo, s'amuse, è il Duca e nessuno, naturalmente, vorrebbe essere come lui. O no?