Una volta, in Italia, a chi cercava
lavoro poteva molto giovare una raccomandazione del parroco e se si poteva
contare su un vescovo era meglio ancora. Eravamo un paese arretrato
e tradizionalista, in cui il controllo sociale, per forza di cose, passava
attraverso l’organizzazione capillare delle strutture ecclesiastiche.
Non che ai prestatori d’opera, in realtà, interessasse particolarmente
la religione dell’applicante, visto che si dava per scontato che fossimo
cattolici tutti (salvo qualche ebreo, due o tre servi di Mosca e quei pochi
eccentrici di cui era inutile darsi pena), ma quel tipo di garanzia suonava,
comunque, tranquillizzante. Da un frequentatore assiduo dei confessionali
e degli oratori ci si poteva aspettare, per lo meno, che non prestasse
orecchio alle lusinghe dei marxisti senza dio e che non avesse in tasca
la tessera della CGIL.
Sono
cambiati i tempi e di certi preti, probabilmente, i padroni o chi per loro
oggi si fiderebbero meno che dei sindacalisti. E poi, via, siamo
un paese laico, in cui la libertà di pensiero è garantita dalla Costituzione
e protetta dalla legge. Informarsi sulle convinzioni ideologiche
e religiose dei dipendenti, o aspiranti tali, oltre che indiscreto, è espressamente
vietato. E nessuno certo, salvo – forse – gli aspiranti a un posto
di sagrestano, si sognerebbe, nel compilare il curriculum vitae da inviare
ai vari uffici del personale, di precisare di essere cristiano, animista,
idolatra o che altro. Se qualcuno glielo chiedesse, anzi, avrebbe
tutti i diritti di invitarlo a farsi gli affari suoi.
Mica
vero. Una nostra ascoltatrice che lavora – in posizione, suppongo,
di una certa responsabilità – in una società del settore moda, ci comunica
di aver ricevuto appunto un curriculum in cui la candidata, una ragazza
straniera, si dichiara cristiana prima ancora di esibire i suoi titoli.
Titoli, si badi, che non sono da poco: comprendono una laurea, una
discreta esperienza nel settore, un certo numero di riconoscimenti importanti,
la capacità di parlare correttamente cinque lingue e di saper usare tutte
le più aggiornate diavolerie informatiche e, last but nont least, il fatto
di essere cittadina comunitaria, immune, quindi, da problemi di permessi
di lavoro e simili vessazioni. Un profilo, in definitiva, che non
sembra aver bisogno di integrazioni di natura, diciamo così, ultraterrena.
C’è,
tuttavia, un particolare da considerare. L’aspirante in questione
è, sì, cittadina di un paese dell’Unione Europea, ma è di origini armene
e – per di più – è nata a Tehran. Difficile sfuggire all’impressione,
espressa anche dalla nostra corrispondente, che “abbia ritenuto consigliabile
chiarire la propria confessione a causa della sua provenienza geografica”.
E si capisce. Degli armeni in Italia non devono essere in moltissimi
a sapere qualcosa di preciso, ma quanto basta per sospettare che abbiano
a che fare, in qualche modo, con il Medio Oriente, sì. A Tehran,
poi, ci sono gli ayatollah, proprio come a Nassiriya. Uhm… Non
la immaginate anche voi la diffidenza di certi imbecilli verso chi si azzardasse
a esibire come se nulla fosse un’origine di questo genere? Meglio
mettersi al sicuro, molto meglio spiegare che si è cristiani e con quel
tipo di gente, quindi, non si ha proprio nulla a che fare. Probabilmente,
avendo fatto in Italia gli studi universitari, la ragazza sa che il nostro
si definisce un paese laico, ma, in tutta evidenza, di quella definizione
non si fida.
Non
vedo, personalmente, come darle torto. Il nostro è un paese laico
in cui l’intera classe dirigente ripete da più di un anno a questa parte
che uno dei compiti del governo è quello di difendere la civiltà occidentale
contro il fondamentalismo islamico, aggiungendo il più delle volte che
di islamici non fondamentalisti, a ben vedere, in giro non ce ne sono.
La nostra aspirante designer di moda, lo spero per lei, non
avrà avuto molto a che fare con gli ambienti leghisti e le saranno così
sfuggite le sparate dell’onorevole Borghezio e dei pari suoi, ma le sarà
bastato, negli ultimi mesi, sfogliare un paio di volte il “Corriere della
Sera” per imbattersi in prima pagina in un qualche articolo di Magdi Allam
in cui si spiega come nel nostro paese tra le comunità sciite, nelle moschee
e negli altri luoghi di culto islamici, sotto i panni stessi dei loro dirigenti
e pastori, si celino minacce di ogni tipo alla civiltà e alla democrazia.
Come se il terrorismo – che pure ha nella tradizione culturale del
nostrio Occidente delle radici, ahimè, piuttosto profonde – oggi
fosse un fatto eminentemente orientale e medio orientale, al punto da giustificare
una certa legittima cautela e un accorato invito alla vigilanza nei confronti
da chiunque provenga da quelle parti del mondo.
La
nostra ascoltatrice ci scrive che “l’importanza che sta riassumendo la
religione” la “inquieta non poco”. Inquieta non poco anche me.
Ma forse in questo caso la religione c’entra solo fino a un certo
punto. Almeno se la consideriamo, laidamente, un fatto di coscienza
personale, un elemento costitutivo della spiritualità dei singoli. Con
i tempi che corrono, non credo proprio che di tutto ciò importi molto a
nessuno. L’aspetto della religione che interessa a quei tipi lì
è ancora l’antica maledizione tribale, il rifiuto razzista di immedesimarsi
con l’altro, l’impulso beatificato a respingerlo e soggiogarlo. Un
atteggiamenti che, come capita spesso ai fanatici, è simmetrico e speculare
a quello che si rimprovera al supposto avversario. Anzi, è un modo
classico per costruirsi un avversario, per negare diritti, imporre gerarchie
e scavare fossati senza tirare in ballo quei maledetti interessi concreti
che, in questi casi, si preferisce sempre non nominare.
Ahimè,
è vero che per combattere le guerre sante, come tutte le guerre, bisogna
essere in due. Ma è sempre meglio stare attenti a coloro che combattono
nelle nostre fila, che sostengono di essere dalla nostra parte. Sono
loro quelli che fanno più danno.
30.05.’04