Apprendo da un articolo di Eva Cantarella
sul “Corriere della Sera” di martedì che a maggio potremo ammirare, in
tutte le sale e multisale superstiti, un colossal cinematografico di rara
potenza, liberamente ispirato al racconto omerico della saga troiana (in
inglese si intitola, semplicemente, Troy e chissà come se la caveranno
i distributori italiani) e interpretato nientemeno che da Brad Pitt nella
parte di Achille. Non me ne aspetto niente di buono, ma il fatto
in sé mi sembra abbastanza inevitabile. Il cinema, per quanti capolavori
abbia creato a partire da storie private, si lascia incantare periodicamente
dai grandi miti della cultura occidentale e se Mel Gibson ha avuto l’audacia
di seguire le orme di Cecil B. De Mille trascrivendo sul grande schermo
la vita di Cristo, non vedo perché qualche suo collega non debba cimentarsi,
a sua volta, con l’Iliade. Il compito, oltretutto, è più facile,
perché, a non contare un peplum di culto come L’ira di Achille di Marino
Girolami, del ‘62, in cui i panni dell’eroe omerico erano cuciti sulle
robuste membra di Gordon Mitchell, l’unico altro tentativo di un certo
spessore ricordato dalle storie del cinema è l’Elena di Troia di Robert
Wise (1955), che, nonostante la presenza di Rossana Podestà e una fugace
comparsata di una giovanissima Brigitte Bardot, non è esattamente un capolavoro.
Non
è questo, comunque, il problema e non intendo rubare all’Accame le sue
competenze di critico. Neanche la Cantarella, d’altronde, si occupa
di storia o dottrina del cinema. Lei ha scritto quell’articolo
perché l’idea di Brad Pitt nella parte di Achille proprio non le va giù.
I capelli biondi, lo ammette, ci sono, ma qui si ferma qualsiasi
somiglianza tra i due. Achille, per la nota studiosa, non era né
bello né simpatico (e Brad Pitt, evidentemente, sì). Si era bruciate
le labbra quando la madre aveva cercato di renderlo immortale attraverso
il fuoco e come si fa a definire bello chi non è in grado di sorridere?
Lei, quando a scuola leggeva l’Iliade ”stava” sempre con Ettore,
come – d’altronde – la maggior parte dei suoi compagni, pochissimi dei
quali tifavano per il figlio di Peleo. Il quale, di fatto, aveva
un pessimo carattere: “a causa della sua proverbiale ira funesta” leggo
“i greci muoiono a migliaia sotto le mura di Troia” e tutto per
una “reazione a un’offesa dell’onore”, una forma di “odio coltivato
in sprezzante isolamento con totale insensibilità alle esigenze altrui.”
L’articolo ammette che nessuno degli eroi greci può definirsi altruista,
che erano in pochi, tra loro, a conoscere la mitezza. “Ma Achille
supera tutti in arroganza, in presunzione, nel culto narcisistico della
propria immagine. Di quel che accade ai suoi commilitoni, di quel
che accadrà alla Grecia ben poco gli importa.” E via dicendo.
Io,
naturalmente, non so quale scuola abbia frequentato l’autrice. Visto
che siamo, più o meno, coetanei, immagino che non sarà stata molto diversa
dalla mia. E io, che allora leggevo l’Iliade nella traduzione del
Monti, che, per un ragazzo delle medie è un tantino più difficile da decifrare
dell’originale greco, ero troppo occupato a cercare di capire cosa diavolo
volesse dire il sacerdote Crise quando ricordava ad Apollo di averne unqua
adornato con serti il leggiadro delubro e di avergli arso i fianchi opimi
di tauri e giovenchi per potermi permettere il lusso di schierarmi con
questo o quell’eroe. La Cantarella aveva, evidentemente, il vantaggio
di essere figlia di un grande grecista (di cui peraltro, in seguito, avrei
avuto anch’io l’onore di essere allievo) e aveva già capito, da piccola,
quello che noi meno fortunati avremmo scoperto un decennio dopo sulle pagine
dello Snell e dello Jäger, che l’areté, la “virtù” dell’eroe greco
arcaico, ha a che fare, lo insegna l’etimologia, solo con l’aristeuein,
il “primeggiare”, e che Achille vuole solo ed esclusivamente essere il
primo in qualsiasi campo, dall’ammazzare i nemici al piangere gli amici,
e del destino di chi, come Agamennone e i suoi, gli nega la relativa investitura
non potrebbe importargliene di meno. Che certo non è un tratto simpatico
e mal si concilia con i nostri odierni ideali di collaborazione in vista
di un risultato comune. Che le virtù “antagonistiche” degli antichi
non c’entrino una beata fava con quelle “collaborative” dei moderni
lo ha magistralmente illustrato Arthur W.H. Adkins in un grande saggio
del 1960 ed è assunto comune che la sua analisi resti insuperata e – forse
– insuperabile.
Ma
certo, guardandosi intorno oggi, si ha qualche motivo di dubitarne. Le
virtù collaborative saranno tipiche di noi moderni, ma in questi tempi
non godono certo di una particolare popolarità. Di villanzoni prepotenti
che pensano soltanto a se stessi e al proprio primeggiare, considerando
un patetico residuo del passato qualsiasi impegno di solidarietà, ne conosciamo,
per nostra disdetta, fin troppi. Alcuni, si sa, presiedono ai nostri
destini, a partire da colui che su tutti primeggia in ricchezza e potere
mediatico, che in quanto ad arroganza, presunzione e culto narcisistico
della propria immagine non è secondo a nessuno, e che, se a qualcuno può
sembrare, per avventura, un perfetto cialtrone, del suo essere il più cialtrone
di tutti è riuscito a fare una strategia consapevole. Achille, poveretto,
non poteva farsi fare il lifting alle labbra bruciate e, comunque, affrontava
la sua parte di pericoli, nel senso che sapeva benissimo che subito dopo
quello di Ettore sarebbe venuto il turno suo. Ma non si lasciava
guidare, nella norma del suo agire, da considerazioni di utile personale.
Perché il solidarismo, certamente, è fuori moda, preoccuparsi troppo
degli altri è – sembra – contrario alle leggi di un sano sviluppo economico,
ma a furia di prendere a calci nei denti quelli che si considerano propri
inferiori si finisce per ricadere in quella barbarie dalla quale, ai tempi
di Omero, l’umanità stava appena emergendo e che non a caso un altro pensatore
di origine greca metteva in contrapposizione, qualche decennio fa, con
il socialismo.
Achille, tutto sommato, non faceva gran
danno. Si limitava a far fuori, in leale tenzone, un certo numero
di parigrado non meno trucidi di lui. Non gli sarebbe mai passata
per l’anticamera del cervello l’idea di approfittare dei più deboli,
di arricchirsi a loro spese e di pretendere, per di più, la loro ammirazione.
Il continuo sgomitare di quanti oggi agiscono in base al presupposto
inespresso che per giungere in vetta e restarvi non c’è altra via che
calpestare chiunque faccia da ostacolo, produce, come sappiamo, molte più
vittime.
28.03.’04