Deve essere durissima la vita dei capo
di stato stranieri in visita ufficiale nel nostro paese. Durissima,
soprattutto, dal punto di vista alimentare. La cucina italiana, per
concorde giudizio, è famosa nel mondo, ma a loro, alle cene ufficiali,
toccano solo dei piatti particolari, quelli che possano sfoggiare i colori
della nostra bandiera, una cosa, lo ammetterete, che deve limitare non
poco la scelta degli chef. Pensate: una dieta di insalata caprese,
pizza margherita e tagliolini verdi con panna e prosciutto, senza mai la
soddisfazione di una bella cotoletta alla milanese, di un solido piatto
di pasta con le sarde, di una parmigiana di melanzane o un risotto giallo.
Costretti a limitare il loro appetito alle varie possibili combinazioni
tra latticini, pomidoro e spinaci, è probabile che gli illustri ospiti
non sognino altro che l’ora di rientrare in patria. Tanto più che,
alla fine, come dessert c’è inesorabilmente il gelato. Un gelato
tricolore, ovviamente: panna, fragola e pistacchio. Hai voglia sperare
nelle cassate o nella stracciatella, nei tiramisù, nelle meringhe e nei
babà: panna, fragola e pistacchio gli tocca e di panna, fragola e pistacchio,
come con i coni delle bancarelle di una volta, si devono accontentare.
Lo ha confidato Berlusconi in persona ai giornalisti che ha scortato
in visita a Palazzo Chigi, in occasione della serata di gala con gli stilisti
della moda italiana, mercoledì scorso. E ha assicurato che i poveracci,
invece di protestare, magari per via diplomatica, sono tutti contenti,
e anzi ne vogliono di più. Bush, in particolare, di gelato è ghiottissimo.
“Silvio, remember” gli dice sempre “I want italian ice cream.” Anzi,
da un po’ di tempo lo chiama, per comodità, “Silvio’s ice cream”.
Sarà.
Quella sera, va detto, il capo del governo ha messo a prova più volte
la credulità dei suoi interlocutori. Sappiamo tutti che quanto a
faccia di bronzo il tipo non è secondo a nessuno e che è capace di raccontare,
come ha fatto appunto in quell’occasione, di essersi piegato al lifting
solo per far contenta la moglie o che la figlia Barbara vorrebbe tanto
entrare in una casa editrice, per cui si è già fatto uno stage in Mondadori
“ai livelli più bassi” del marketing periodici. Ma questa storia
del gelato di Bush, anzi, del Silvio’s ice cream, lascia davvero perplessi.
Non tanto per motivi di gusto: è vero che la combinazione tra sorbetti
di frutta e prodotti a base di latte è sconsigliata dagli epicurei più
rigorosi, ma non è detto che George W. appartenga alla categoria, anzi,
da lui ci si può aspettare di tutto. No, è un problema, più che altro,
di tempi e occasioni. Quando mai può essersi sviluppata questa passione
del presidente USA per la fragola, la crema e il pistacchio? Lui
e il Berlusca avranno pranzato insieme in Italia, a dir tanto, tre o quattro
volte e non sempre a Palazzo Chigi. Un po’ poco, a prima vista,
per instaurare una consuetudine così stretta. È più probabile che
la citazione sia dovuta alle note tendenze dell’uomo di Arcore, che non
sa resistere alla tentazione di farsi bello ricordando le sue frequentazioni
importanti. È una prassi un po’ ingenua, ma umana e se a uno fa
piacere farsi chiamare per nome da Bush, be’, contento lui e speriamo
solo che la letizia non gli dia alla testa.
Il
vero mistero, in realtà, è un altro. Perché mai, a pensarci, i cibi
serviti agli ospiti della Presidenza del Consiglio devono essere rigorosamente
tricolori? Non per fare cosa gradita agli ospiti, certamente, perché
è improbabile che dall’esibizione delle nostre insegne nazionali essi
si sentano emozionati. Né per ricordare loro in che paese si trovino:
con Bush, si sa, non si può mai dire, ma gli altri sarà difficile che l’abbiano
dimenticato. E neanche, credo, per rispettare degli obblighi protocollari
ignoti alla prassi diplomatica, o per pure e semplici necessità di cucina,
visto che quell’impegno cromatico, al contrario, limita fastidiosamente
la scelta degli ingredienti e pone inutili pastoie alla inventiva dei cuochi.
Insomma, sembra, come minimo, sciocco autoimporsi delle limitazioni
che, senza motivo apparente, non possono che complicare la vita di tutti
e determinare un livello di accoglienza inferiore.
È
vero che gli ospiti di quel tipo non vengono in Italia per banchettare.
Stretti come sono tra gli impegni politici e quelli mediatici, tiranneggiati
dagli uomini della security, pressati da tabelle di marcia spesso inumane
e stroncati dai salti di fuso orario, probabilmente una volta a tavola
non sentono neanche il sapore di quanto viene loro servito. Ma questo
non è un buon motivo per trascurare l’aspetto alimentare dell’ospitalità.
E poi, se ci si preoccupa di fargli trovare in camera tutte le sere
dei mazzi di fiori freschi nei colori della loro bandiera (anche questa
notizia è una rivelazione di Silvio), non si capisce davvero perché a tavola
li si debba ossessionare, portata dopo portata, con la nostra. È
una contraddizione, questa, della quale il presidente del consiglio
non ha mostrato di rendersi conto.
In
realtà, l’esibizione di portate tricolori è un lascito, un po’ alla lontana,
di un antico costume conviviale del nostro paese, quello per cui altrettanta
importanza che al gusto va riservata, nell’allestimento dei cibi, alla
scenografia in sé, alla forma artistica e spettacolare con cui li si presenta.
Pensate alle descrizioni dei grandi banchetti rinascimentali, con
le loro fortezze di cacciagione, i pasticci a forma di castello, le statue
di zucchero, i pesci coperti da lamine d’oro e i pavoni rivestiti delle
proprie penne disposti come trofei. O pensate, in una dimensione
meno aulica, alla cena di Trimalchione come ce la descrive il grande Petronio.
Anche lì si capisce che, pur nella ricchezza del convito e nella
profusione dei cibi, all’apparenza si è prestato forse maggior attenzione
che alla sostanza.
Trimalchione, a dire il vero, è un personaggio
che con Berlusconi ha parecchie cose in comune, oltre alla forma del nome.
È un uomo che si è fatto da sé e non lo nasconde. Ama esibire
le proprie ricchezze e non si fa scrupolo, forte del senso della propria
importanza, di dire la sua su argomenti su quali farebbe molto meglio a
tacere. Soprattutto, è convinto di non poter far altro che del bene
al suo prossimo: il discorso che pronuncia presentandosi al banchetto (cap.
32), quando spiega di essere venuto controvoglia, solo per non negare ai
convitati il piacere della sua presenza, prefigura di venti secoli la motivazione
della “discesa in campo” del cavaliere. E alla sua tavola, infatti,
i cibi sono truccati, truccatissimi: sotto la griglia di argento che regge
le salsicce calde, chicchi di melograno imitano la brace incandescente;
le uova crude sono, in realtà, di farina e contengono dei beccafichi stufati;
il piatto principale degli antipasti è organizzato come la ruota dello
Zodiaco, nel senso che su ogni segno sono disposti dei cibi in qualche
modo corrispondenti (triglie sui Pesci, fichi d’Africa sul Leone, bistecche
di manzo sul Toro e via andare), tutte vivande piuttosto ordinarie, a prima
vista, ma quando quattro schiavi sollevano il vassoio a passo di danza,
sotto si scopre ogni bendiddio, pollame ingrassato, ventresche di scrofa
e nel mezzo una lepre con le ali in modo da raffigurare Pegaso. E
siamo appena alla prima portata…
Naturalmente
il fatto che una bistecca sia collocata sul segno zodiacale del Toro o
che a una lepre siano applicate due ali non ne migliora in alcun modo il
sapore, anzi. Ma, dal punto di vista del padrone di casa, la presentazione
barocca rappresenta un quid in più, uno sforzo che rivela, se non l’ingegno,
almeno le disponibilità, e in ultima analisi la ricchezza, di chi manda
il tutto in tavola. È una forma di esibizione e, al limite, di autoesaltazione
piuttosto cafonesca e villana, e non per niente il grande personaggio di
Petronio è la quintessenza del parvenu, del villano rifatto grazie a chissà
quali loschi traffici. Ridicolo e quasi patetico nella costante esibizione
di sé, è in realtà una figura più pericolosa di quanto non sembri, perché
la sua beceraggine rimanda a una crisi di vasta portata nella civiltà come
la conosce e concepisce l’autore.
Bene.
Non consideratemi, vi prego, snob e antipatriottico, ma a me quei
piatti tricolorati di cui tanto si compiace il presidente del consiglio
in carica ricordano inesorabilmente lo Zodiaco alimentare e le lepri con
le ali di Trimalchione. Sono anch’essi, in definitiva, una manifestazione
di iattanza e cattivo gusto, di indifferenza alle esigenze della ospitalità,
che vorrebbe che gli ospiti siano messi innanzi tutto a proprio agio, a
vantaggio di una banale imposizione di sé, condotta, oltretutto, attraverso
una simbologia, quella della bandiera, che dovrebbe servire a tutt’altre
funzioni e a Berlusconi, checché lui ne pensi, comunque non appartiene.
I suoi convitati, costretti dalle ferree leggi della diplomazia,
trangugeranno tutto senza protestare, ma chissà quante volte, fra sé e
sé, lo avranno mandato al diavolo, lui e quella sua mania dei tre colori.
È la prima volta, in realtà, che mi accorgo di provare una filo di
simpatia persino per Bush.
01.02.’04