Non so voi,Scusatemi se vi parlo ancora di guerra, ma in questi giorni
mi è abbastanza difficile occuparmi di altro. È un argomento di cui
tutti dovremmo essere sazi, un tema al quale, come ci garantiscono i sondaggisti
più reputati, finiremo quanto prima per abituarci, ma ad abituarmici, finora,
io non sono riuscito. Ogni volta che apro un giornale o ascolto la
radio, riesco sempre a trovare qualcosa di cui stupirmi. E di questo
mio stato d’animo – forse a torto, ma spero di no – mi sento in obbligo
di rendervi edotti.
Non mi sono stupito,
naturalmente, dei commenti, ieri l’altro, al discorso alle Camere di Berlusconi.
Erano prevedibili come il discorso stesso e chiunque abbia un minimo
di pratica del teatrino politico di casa nostra avrebbe potuto anticipare
l’uno e gli altri di un numero imprecisato di giorni. Né mi hanno
meravigliato un granché le omelie dei vari maestri di liberalismo che,
una volta tanto che l’opposizione ha fatto il suo mestiere (che è, salvo
equivoci, quello di opporsi al governo) glielo hanno rimproverato come
un errore gravissimo e una prova manifesta di irresponsabilità. Succede
anche questo da sempre e l’ideale di una sinistra talmente responsabile
da rinnegare se stessa è uno di quelli profondamente radicati nel DNA dei
nostri notisti e commentatori. Che poi costoro abbiano considerato
un’aggravante il fatto che la mozione sul ritiro delle truppe sia stata
presentata, a quanto pare, per secondare gli umori pacifisti dell’elettorato,
conferma soltanto il fatto che la democrazia non è esattamente al centro
dei loro interessi. In democrazia, che è un sistema in cui vige il
principio della rappresentanza, secondare gli umori dell’elettorato è
preciso dovere di chiunque ne abbia chiesto e intenda richiederne i voti.
No. Quello che
mi ha stupito davvero è stata l’indifferenza con cui un po’ tutti i giornali,
a destra, a sinistra e al centro, hanno pubblicato le foto dei due “specialisti”
americani (si dice così) in festa accanto al cadavere di un prigioniero.
Due immagini orribili, eh, lo hanno scritto tutti, dimostrazione
palpabile dello straordinario cinismo di quelle due mele particolarmente
marce che sono, per concorde ammissione di critica e pubblico, il sergente
Charles A. Graner Jr e l’agente Sabrina Harman della 372ª compagnia della
polizia militare dell’esercito degli Stati Uniti, due icone dell’orrore
in cui non si capisce se facciano più impressione il corpo del morto, il
sogghigno degli aguzzini o quelle mani con i pollici alzati in segno di
esultanza, ma accuratamente inguainate – come ha fatto notare la “jena”
del “manifesto” – nei guanti di lattice anti infezione. Ma, tutto
sommato, solo un’appendice particolarmente trucida alla documentazione
corrente sulle torture, due raffigurazioni che aggiungono poco a tutte
le altre che girano, sulla carta stampata, in internet e in TV, da una
decina di giorni. Anzi, è probabile che la loro diffusione sia stata,
in un certo senso, facilitata dalle alte sfere, con l’idea di fare del
sergente Graner e dell’agente Harman i capri espiatori di questo momento
difficile. Sono già stati incriminati per gli “abusi” ad Abu Graith
e tutto fa pensare che li attenda una rapida, esemplare condanna, che scaricherà
su di loro un biasimo che, a onor del vero, dovrebbe essere ben altrimenti
distribuito.
Sono considerazioni
pertinenti e sensate, ma considerazioni cui, pure, manca qualcosa ed è
di questo che vi dicevo di essermi stupito. Nessuno, che io sappia,
ha ancora osservato che con la tortura quelle due foto non c’entravano
niente. A prescindere dalle sofferenze che possono essere state inflitte
in vita a quella povera salma (sembra si trattasse, per non negargli il
suo nome, di un Manadel al-Jamadi, morto, pensate, “sotto interrogatorio
intensivo”) i lazzi macabri dei due poliziotti ci portano in un’altra
dimensione, molto, ma molto più inquietante di quella della violenza sui
vivi.
Perché, vedete, la
tortura ha una sua logica. Si può giustificare – io non lo faccio,
certo, né lo fate voi, ma qualcuno che lo fa c’è sempre – con motivi,
più o meno credibili, di necessità. La necessità di acquisire in
fretta delle informazioni importanti, di stabilire dei dati in base a cui
si potrà, forse, rovesciare una situazione in pericolo, salvare delle vite
amiche… Sì, lo so, ci hanno pensato il Verri e il Beccaria, due
secoli e mezzo fa, a smontare i sofismi di questo tipo, ma c’è ancora
una quantità di gente che ci crede e che, purtroppo, li applica. Come
ha scritto assai bene sullo stesso “manifesto” di venerdì Marco Codebo,
almeno la metà degli americani, come risulta da due sondaggi sul sito web
della CNN, non ha, in linea di principio, pregiudiziali contro la tortura
e questo “appare in sintonia sia con la storia recente degli Stati uniti
sia con il tipo di approccio all’Altro che è attualmente maggioritario
da quella parte dell’oceano”. E il problema, quello che lo studioso
chiam “effetto lettera scarlatta” (vi ricordate, vero, il romanzo di
Hawthorne, in cui “il predicatore di durezze puritane porta sul petto
il marchio dell’adulterio”) non riguarda, naturalmente, solo l’America,
ma coinvolge, in un modo o nell’altro, la nostra intera civiltà. Tutte
le polizie rivendicano da sempre il diritto di usare la mano forte con
gli inquisiti e ben pochi governi si mostrano intenzionati a negarglielo.
In materia, anzi, ricorderete come il Parlamento italiano abbia dato,
appena un mese fa, una ben triste prova di sé.
Sono cose, piacciano
o meno, assodate Ma da un morto, ahimè, informazioni non se ne possono
ricavare. E allora, Dio santo, perché? Perché infierire, sia
pure simbolicamente, su di lui, contrapponendo al suo volto spento i propri
sorrisi, la propria vitalità e i propri pollici alzati? Il rispetto,
più o meno sincero, per i corpi defunti fa parte di tutte le culture, in
considerazione di quel poco (o tanto, fate voi) che accomuna, nel comune
destino, i vivi e i morti. È l’unico ossequio che possiamo prestare
alla nostra stessa umanità nel momento in cui essa vien meno per tornare,
come si dice, alla terra.
Di tutto questo, ovviamente,
al sergente Graner e all’agente Harman non potrebbe importare di meno.
Il loro è un atteggiamento ludico, un atto gratuito e assolutamente
libero da giustificazioni e finalità operative, che si inserisce in un
quadro di totale indifferenza alle ragioni dell’umanità. Al minimo,
ma proprio al minimo, li potremmo considerare dei perfetti razzisti, nel
senso che non riconoscono alcuna dignità a chi non fa parte del sottogruppo
umano (o presunto tale) di cui si sentono parte. Più probabilmente,
sono due iloti culturali, indifferenti a qualsiasi discorso di valore estraneo
alla propria comunità, il che è ancora peggio. Gli hanno insegnato
a dividere il mondo tra pochi amici e infiniti nemici, sottolineando che
non è che i nemici, checché se ne dica, siano proprio uomini come loro.
Per cui, quando hanno finito di occuparsene, quando li hanno ridotti
allo stato ottimale di “nemici morti”, cosa ne possono fare? Ci
giocano e non capiscono neanche perché non dovrebbero.
Saranno due mele marce,
figuriamoci. Ma sarebbe interessante capire da dove viene il marciume.
23.05.’04 ma io sono arrivato alla mia (abbastanza) rispettabile
età senza avere idea di che cosa fossero le “regole d’ingaggio”. Sapevo,
certo, che l’ingaggio era, come spiegano i vocabolari, “l’atto dell’ingaggiare”
e non ignoravo che questo verbo, dall’antico francese engagier, correlato
a sua volta con un gage, “pegno”, che, nella forma “gaggio”, si ritrovava
un tempo anche in italiano, indicava appunto l’impegno a svolgere un’attività
definita, a pena di un danno di carattere pecuniario o di altro tipo. Avevo
sentito parlare del “premio d’ingaggio”, che, come spiega lo Zingarelli,
è “la somma spettante a chi viene ingaggiato, specie atleti tesserati
da società sportive” e avrei forse potuto osservare, se ci avessi
pensato, che un valore del genere si può individuare anche nell’inglese
engagement, che è un sinonimo di “fidanzamento”, una cosa che più impegnativa
di così non potrebbe essere (e una volta comportava anche il rischio, per
gli inadempienti, di rimetterci la dote), per non dire del francese engagé,
che sposta il problema nell’area ideologica, come quando lo si applica,
a torto o a ragione, agli intellettuali. Ma con questo, se si prescinde
da un accenno piuttosto oscuro dei vocabolari alla mossa di inizio nel
gioco dell’hockey, lo spettro semantico di quella parola per me
poteva dirsi esaurito. Non vi si trovavano accenni a regole precise,
né si vedeva come tutto ciò potesse applicarsi alla guerra in Iraq, a meno
di riferirsi all’arruolamento di quanti avrebbero dovuto combatterla,
che non sono soldati di leva, anche se – non ho mai capito perché – non
si possono definire mercenari, o alla figura di Berlusconi, che non sarà
un intellettuale, ma nel non voler ritirare le truppe è sicuramente engagé
e con Bush, com’è noto, si considera più engaged di ogni altro uomo di
governo europeo.
Ahimè. Il linguaggio, nella sua incessante
attività di ricategorizzazione e riformulazione, ha creato e ci ha imposto
anche le “regole di ingaggio”. Visto che il verbo “ingaggiare”,
non so se per allusione al fidanzamento, si può riferire anche all’inizio
di una attività ostile, come in “ingaggiare battaglia”, si definiscono
con quella espressione i parametri che gli stati maggiori utilizzano per
stabilire quando e come i militari in azione devono attaccare il nemico,
per decidere, in sostanza, se sia il caso sparare appena si avvista qualcuno
che si ha motivo di ritenere ostile o se, come nei western del tempo che
fu, per fare fuoco bisogna aspettare almeno che l’avversario metta mano
alla sua pistola. È una accezione, lo ammetterete, molto peculiare,
gergale quasi, ma è entrata nelle nostre conversazioni di tutti i giorni
per via dell’abitudine, tipica dei media di oggi, di imporre a tutti gergalità
varie e usi specialistici assortiti, senza prendersi necessariamente la
briga di spiegarne prima il significato. Per questo, oggi, siamo
avvezzi a leggere sui giornali dei fatti di sciiti e sunniti, senza avere
– in genere – quel minimo di competenza in teologia islamica che ci permetterebbe
di capire cosa significhino quei due termini (tanto è vero che i più li
considerano riferiti a due etnie) e non ci saziavamo, appena ieri, delle
prediche sul tasso di sconto e sulla necessità di abbassarlo, anche se
su cosa fosse un tasso e su come diavolo si potesse spingerlo all’ingiù
avevamo quasi tutti delle idee assai confuse.
Niente di male, naturalmente. Quello
di fingerci più dotti di quanto siamo ricorrendo con simulata disinvoltura
ai linguaggi tecnici è, tutto sommato, un peccato veniale. I veri
esperti non se ne hanno a male e sorridono appena delle gaffes verbali
che questa abitudine il più delle volte comporta.
Salvo, naturalmente, quando non di gaffes si tratta, ma di reticenze volute.
Perché un gergo, di qualsiasi tipo, ha due funzioni fondamentali:
quella di facilitare la comunicazione e renderla più affidabile all’interno
del gruppo che lo ha creato e lo adotta e quello di escluderne, più o meno
radicalmente, chi di quel gruppo non fa parte. In questo secondo
caso i gerghi hanno, più o meno, la stessa funzione degli eufemismi, nel
senso che è ovvio che parlare di “regole d’ingaggio” e della necessità
di modificarle è molto più tranquillizzante per tutti che chiedersi se
ai “nostri ragazzi”, i militari che il governo ha mandato irresponsabilmente
nell’inferno dell’antica Babilonia, non sia il caso di consigliare, se
vogliono riportare a casa la pelle, di aprire il fuoco a vista su qualsiasi
bipede irakeno si muova o se non sia meglio prescrivergli un atteggiamento
rigidamente difensivo, anche a rischio di subire le perdite che in certe
situazioni quell’atteggiamento comporta. Spesso in guerra l’alternativa
che ci si pone è quella tra l’uccidere e l’essere uccisi e non sono,
queste, problematiche che un ceto politico attento soprattutto ai sondaggi
ami particolarmente affrontare. Anche perché, come hanno dimostrato
nei giorni scorsi le parole del ministro della Difesa, di quello degli
Esteri e del Presidente del Consiglio, coloro, pur avendoci trascinato
in guerra, si ostinano a negare che la guerra ci sia ed essendo la nostra,
a loro avviso, una “missione di pace”, non è possibile che chi la esercita
ammetta di valersi di regole che con la pace hanno poco o nulla a che fare.
In Italia, d’altronde, si fa sempre così, anche quando la serietà della
situazione sembrerebbe escluderlo. Si va avanti improvvisando, facendo
una cosa e dicendone un’altra, nella fiducia di riuscire a nascondere
qualsiasi realtà spiacevole dietro una spessa cortina di parole.
Se qualcuno è destinato a lasciarci la pelle, pazienza: non mancheranno
(non sono mancate) parole neanche per lui. Anche questa è una regola.
Ma una regola, naturalmente, che la dice lunga sul livello morale
di chi la applica.
23.05.’04