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Il fazzoletto e la rosa
La caccia
| Trasmessa il: 10/16/2011
Il fazzoletto e la rosa
“Il cavaliere della rosa” di Richard Strauss e Hugo von Hofmanstahl, che va in scena in questi giorni alla Scala, si conclude, com'è noto, con una breve pantomima. Dopo lo struggente terzetto finale, che sancisce l'unione dei due giovani innamorati e la rinuncia della Marescialla, dopo l'uscita di quest'ultima al braccio di Faninal, Octavian e Sophie finalmente si abbracciano. Poi escono di corsa: lei, nella fretta, lascia cadere il fazzoletto. La scena resta vuota per qualche attimo, mentre l'orchestra suona le ultime, incantevoli, battute: poi entra il paggetto nero della Marescialla, cerca il fazzoletto, lo raccoglie e se ne va a passettini. Cala rapidamente il sipario.
Non è chiarissimo che cosa volessero significare i due autori, e segnatamente quello del libretto, con questa scenetta. Forse che la vita continua: Sophie, anche se ha raggiunto la felicità con l'amato Octavian, avrà sempre bisogno del suo fazzoletto. O forse, chissà, il breve episodio, in cui una figura nera – pur se si tratta di un innocuo moretto – porta via qualcosa di bianco, avrà un significato simbolico meno rassicurante. Quello che è certo è che la pantomima ristabilisce un certo equilibrio emotivo dopo l'estenuazione patetica, riportando gli spettatori dal sogno alla realtà. È come se Strauss, consapevole di aver volato altissimo nella sfera del sentimento, abbia chiesto a Hofmanstahl una chiusura in tono minore, volutamente ambigua. Domani è un altro giorno e chissà cosa succederà ai nostri personaggi. Per ora cala il sipario.
L'attuale messa in scena scaligera, che è poi la ripresa di quella creata da Herbert Wernucke nel 1995 per il festival di Salisburgo, si prende parecchie libertà con l'originale. L'azione, per esempio, è spostata dall'età teresiana ai primi decenni del '900, con tutto quello che ciò significa in tema di scene e costumi. Io, per quel che vale il mio giudizio, ho sempre dubitato un poco della liceità di questo tipo di operazioni, ma il teatro moderno, lirico o di prosa, ormai ci ha abituati a questo e altro, e può essere persino un sollievo, per una volta, incontrare quei personaggi liberi dalle crinoline e dalle parrucche incipriate della tradizione. Vedere Octavian in frac bianco a lustrini e cilindro, come un personaggio da cabaret weimariano, può lasciare sconcertati, ma bisogna ammettere che la Marescialla e Sophie in
negligée
e in “lungo” da sera sono comunque incantevoli e che a un buzzurro nato come il barone Ochs auf Lerchenau non disdice affatto il presentarsi in scena in
Lederhosen
. Gli stanno, anzi, piuttosto bene.
È sul finale, se mai, che perplessità si infittiscono. Concluso il terzetto, uscita la Marescialla, consumato il loro primo abbraccio, Sophie e Octavian non escono di scena di corsa, incontro – si suppone – alla vita di felicità che li attende. Si sdraiano sul palcoscenico l'uno accanto all'altra, in una posizione che, più che la passione appagata, ricorda le vittime di un plotone di esecuzione. Tanto più che il paggetto – il Pierrot con la mascherina che in questa messinscena ne fa le veci – quando entra in scena non si preoccupa di fazzoletti, ma lascia cadere sui loro corpi esanimi una rosa rossa. Poi raccoglie da terra la rosa d'argento che è stata occasione del loro primo incontro e chissà come è finita lì e se ne va. Ma la posizione dei due e l'omaggio floreale non lasciano troppi dubbi sulle intenzioni del regista. L'amore dei due giovani non era cosa di questa terra e infatti si è trasfigurato nel sonno della morte.
Non è proprio un arbitrio assoluto. Abbiamo visto che anche il finale, diciamo così, autentico, presentava un minimo di ambiguità. E tutta l'opera, nonostante il tono gaio (e a volte ridanciano) è venata da una sottile malinconia, evidente soprattutto nelle considerazioni della Marescialla sulla fugacità della giovinezza. E alle spalle di Strauss, naturalmente, c'è tutta la tradizione romantica, e in specie Wagner che in tema di ambiguità amore – morte ha probabilmente scritto, nel
Tristano,
le pagine definitive. Persino attorno al Cherubino di Mozart, che è il modello dichiarato di Octavian, aleggia un non so che di malinconico, anche per chi non sa che nella ultima parte della trilogia di Beaumarchais, quella che né Mozart, né Paisiello né Rossini hanno messo in musica, il personaggio è destinato a lasciarci le penne. Ma nonostante tutto è singolare come, con un intervento apparentemente insignificante, una commedia tutto sommato ottimistica, in cui l'amore trionfa sulle convenzioni sociali e tutti finiscono con l'accettare, abbastanza di buon grado, il proprio destino, viene trasformata in un esplicito
memento mori
, nella negazione di ogni possibile felicità in vita. E va bene che Octavian, nel finale, canta che “dall'anima ogni oggetto come sogno via si dilegua”, ma non in quel senso lì. Forse.
Scusatemi. Mi sono lasciato trasportare dal mio amore per l'opera e vi ho inflitto una lezione di cui, in questa sede, non sentivate probabilmente il bisogno, rubando per di più il mestiere ai colleghi che, con tanta maggiore competenza, qui in radio si occupano di queste cose. E poi i registi devono fare il loro mestiere e quello di “rileggere” i testi è uno dei modi accreditati per farlo. Ma non trovate anche voi che, ogni tanto, nel loro impegno di rilettura risuoni una specie di accanimento? In ogni testo letterario è teatrale è insita la possibilità di innumerevoli interpretazioni, nel senso che il rapporto tra l'autore e il lettore/spettatore è di necessità aperto, comporta dei margini di ambiguità nel cui esplicarsi consiste, in definitiva, la storia della cultura. Ma quando, come nel nostro caso, l'impegno dell'interprete è volto soprattutto a chiudere quelle ambiguità, a esplicitare in una certa direzione l'implicito, a schiarire le ombre e a precisare le sfumature, non vi sembra che il risultato, tutto sommato, equivalga a una perdita? Cosa succede di due innamorati dopo che è calata la tela, be', questa è una cosa che l'autore non ci dice mai, siamo noi che, in ultima analisi, dobbiamo stabilirlo, e non dovremmo permettere che nessuno, regista, autore di
sequels
o altro che sia, si arroghi il diritto di prendere il nostro posto. Cosa sarebbero l'arte e la vita senza un pizzico di ambiguità?
16.10.'11
Carlo Oliva
Carlo Oliva
, milanese, nato nel 1943, è sostanzialmente un eclettico.
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