È stata una settimana, quella testé
trascorsa, che per un ex insegnante di greco e latino peggio di così non
poteva andare. Non tanto, però, perché sia in proiezione in non so
quante sale un film in cui, se ho seguito bene la trama, la durata della
guerra di Troia viene ridotta a cinque giorni scarsi, Menelao ci rimette
la pelle e, a città distrutta, Elena si salva con Paride, o perché in televisione
sia apparsa una biografia di Nerone in cui i rapporti temporali erano,
mi si dice, un po’ fuori squadra. In fondo, quel film è piuttosto
divertente, le riletture di autore del mito hanno sempre ammesso una certa
libertà di interpretazione (da questo punto di vista, lo stesso Omero ci
deve aver messo del suo ed Euripide e Shakespeare hanno fatto di peggio)
e un’Elena al sicuro con il suo Paride sul monte Ida, comunque, sconcerta
meno di quella che, nel quarto canto dell’Odissea, vive tranquilla a Sparta
con il primo marito e offre l’aperitivo a Telemaco. Né le sfasature
nella biografia di Nerone sono tali, tutto sommato, da farci perdere il
sonno. No: i motivi che fanno gemere me e i miei colleghi, che ci
spingono ancora una volta alle ben note querimonie sulla tristezza dei
tempi e la crisi della cultura, sono ben altri.
Ha
cominciato, pensate un po’, Eugenio Scalfari, nel fondo di “Repubblica”
di lunedì, a sconciare – con un clamoroso parce sepultum – una delle
più classiche citazioni da Virgilio, dimostrando di ignorare una nota regola
di sintassi dei casi (e chissà quante volte glielo avranno ripetuto, al
ginnasio, che parco reggeva il dativo). Ha insistito Silvio Berlusconi,
nella sua esibizione milanese del giorno dopo, quando, per far capire che
di perdere alle europee non ha la minima intenzione, ha detto che quella
era “un’ipotesi dell’irrealtà”, dimenticandosi che le elezioni sono
previste tra quindici giorni e la sintassi latina prevede quell’ipotesi
solo al presente e al passato, nel senso che non bisogna mettere limiti
alla Provvidenza, il futuro è sulle ginocchia degli dei e – insomma –
non si può mai dire. E il colpo di grazia ce l’hanno dato, mercoledì,
i due “disobbedienti” incappucciati che in una conferenza stampa a Roma
in vista delle manifestazioni del 4 giugno prossimo contro Bush, hanno
spiegato, con quel tanto di supponenza che caratterizza, chissà perché,
certe frange del movimento no global, che sulle carte geografiche, ai tempi
dell’impero romano, si scriveva hic sunt leones (“qui ci sono i leoni”)
per indicare le zone in cui allignavano i ribelli al potere imperiale e
che di tali ribelli il grande capo bianco avrebbe trovato a Roma gran copia.
E
no, ragazzi miei, non ci siamo. Nessuno auspica più di me che venerdì
a Bush si faccia chiaramente capire cosa pensa il popolo italiano di lui
e della sua guerra, ma in quanto cultore di cose latine, mi spiace, devo
assolutamente fare notare che quella formula non è mai stata usata in quel
senso. Hic sunt leones si scriveva (e non in età imperiale, quando
di mappe vere e proprie non ce n’erano, ma molto più tardi) in quelle
aree dei planisferi in cui, per mancanza di informazioni, non si poteva
scrivere nient’altro. Era un’indicazione che corrispondeva più
o meno a un “cosa ci sia qui proprio non lo sappiamo” e in questo senso
si è conservata fino ai giorni nostri. Con le ribellioni al potere
centrale non aveva (e non ha) proprio nulla a che fare.
È
curiosa, lo ammetterete, questa sorta di persistenza retorica della cultura
classica, cui si rivolgono in cerca di asseverazione un maitre a pénser
del giornalismo laico, il Presidente del Consiglio e due esponenti dell’opposizione
radicale, inciampandovi tutti. Ma certi equivoci, a volte, sono più
significativi di quanto sembri. Così, quella storia del sunt leones
mi ha fatto venire in mente che, a pochi giorni dall’arrivo del presidente
USA, dell’accoglienza in programma non sappiamo effettivamente niente.
Tutto anzi fa pensare che, per un motivo o per l’altro, partiti,
movimenti, leader e ideologi vari non siano riusciti a mettersi d’accordo
per una significativa azione comune. Tra una proposta e l’altra
di imbandieramenti, presidii, cortei, percorsi e quant’altro la
confusione, anzi, è tale, che se per le strade capitoline apparissero,
putacaso, dei leoni in carne e ossa nessuno avrebbe davvero di che stupirsene.
Be’,
tutto questo – diciamolo – non è confortante. La benevolenza degli
dei, o la stoltezza degli avversari, fate voi, ci aveva dato l’occasione
di mostrare al mondo quanto fosse forte, radicato e capace di mobilitarsi
il movimento per la pace nel nostro paese. Se Bush avesse trovato
a Roma una manifestazione della portata, per dire, di quella del 20 marzo,
la cosa avrebbe fatto certamente rumore e non sarebbe stata senza conseguenze
per gli sviluppi politici successivi. E invece, non si capisce perché,
la prospettiva, invece di essere accolta con grida di giubilo, ha sparso
il panico nella sinistra. Sono cominciati i distinguo, le prese di
distanza, i “chi ce lo fa fare?” e i “no, no, figuriamoci”.
E se ai partiti maggiori l’idea di manifestare contro gli Stati Uniti
ha fatto evidentemente venire l’orticaria, il movimento dei duri e puri
si è affrettato a cadere nella prevedibilissima trappola organizzata dalla
questura con il semplice espediente di negare una piazza, in modo che qualcuno
(un qualcuno di quelli che ci sono sempre) decidesse che la conquista di
quella posizione vietata fosse, in sé, molto più importante di qualsiasi
esibizione di forza pacificamente organizzata. Per cui, allo stato,
l’unica cosa che della manifestazione futura si può prevedere con relativa
certezza sono i titoli dei giornali del giorno dopo, che hanno un’alta
probabilità di essere incentrati su chissà quali gonfiatissimi “incidenti”,
secondo il modello felicemente messo in opera il 21 marzo.
Magari,
con un po’ di aiuto della Fortuna, non succederà niente del genere. Ma
il rischio, lo ammetterete, c’è. Perché se fino a qualche tempo
fa si usava rimproverare alla sinistra nel suo complesso di fare troppo
conto, per ribaltare la situazione politica del paese, sugli errori della
destra, adesso la situazione si è capovolta e sono loro che, per tirarsi
fuori dalle peste, fanno un gran conto sui nostri errori. Consapevoli
forse che, come dice il saggio, quos perdere vult deus prius amentat, “a
coloro che vuole mandare in rovina il dio toglie prima il cervello”. Con
la sintassi saranno un po’ deboli, ma nel cambiare le carte in tavola,
credetemi, sono sempre stati i primi della classe.
30.05.04