Leones

La caccia | Trasmessa il: 05/30/2004



È stata una settimana, quella testé trascorsa, che per un ex insegnante di greco e latino peggio di così non poteva andare.  Non tanto, però, perché sia in proiezione in non so quante sale un film in cui, se ho seguito bene la trama, la durata della guerra di Troia viene ridotta a cinque giorni scarsi, Menelao ci rimette la pelle e, a città distrutta, Elena si salva con Paride, o perché in televisione sia apparsa una biografia di Nerone in cui i rapporti temporali erano, mi si dice, un po’ fuori squadra.   In fondo, quel film è piuttosto divertente, le riletture di autore del mito hanno sempre ammesso una certa libertà di interpretazione (da questo punto di vista, lo stesso Omero ci deve aver messo del suo ed Euripide e Shakespeare hanno fatto di peggio) e un’Elena al sicuro con il suo Paride sul monte Ida, comunque, sconcerta meno di quella che, nel quarto canto dell’Odissea, vive tranquilla a Sparta con il primo marito e offre l’aperitivo a Telemaco.  Né le sfasature nella biografia di Nerone sono tali, tutto sommato, da farci perdere il sonno.  No: i motivi che fanno gemere me e i miei colleghi, che ci spingono ancora una volta alle ben note querimonie sulla tristezza dei tempi e la crisi della cultura, sono ben altri.
        Ha cominciato, pensate un po’, Eugenio Scalfari, nel fondo di “Repubblica” di lunedì, a sconciare – con un clamoroso parce sepultum – una delle più classiche citazioni da Virgilio, dimostrando di ignorare una nota regola di sintassi dei casi (e chissà quante volte glielo avranno ripetuto, al ginnasio, che parco reggeva il dativo).  Ha insistito Silvio Berlusconi, nella sua esibizione milanese del giorno dopo, quando, per far capire che di perdere alle europee non ha la minima intenzione, ha detto che quella era “un’ipotesi dell’irrealtà”, dimenticandosi che le elezioni sono previste tra quindici giorni e la sintassi latina prevede quell’ipotesi solo al presente e al passato, nel senso che non bisogna mettere limiti alla Provvidenza, il futuro è sulle ginocchia degli dei e – insomma – non si può mai dire.  E il colpo di grazia ce l’hanno dato, mercoledì, i due “disobbedienti” incappucciati che in una conferenza stampa a Roma in vista delle manifestazioni del 4 giugno prossimo contro Bush, hanno spiegato, con quel tanto di supponenza che caratterizza, chissà perché, certe frange del movimento no global, che sulle carte geografiche, ai tempi dell’impero romano, si scriveva hic sunt leones (“qui ci sono i leoni”) per indicare le zone in cui allignavano i ribelli al potere imperiale e che di tali ribelli il grande capo bianco avrebbe trovato a Roma gran copia.
        E no, ragazzi miei, non ci siamo.  Nessuno auspica più di me che venerdì a Bush si faccia chiaramente capire cosa pensa il popolo italiano di lui e della sua guerra, ma in quanto cultore di cose latine, mi spiace, devo assolutamente fare notare che quella formula non è mai stata usata in quel senso.   Hic sunt leones si scriveva (e non in età imperiale, quando di mappe vere e proprie non ce n’erano, ma molto più tardi) in quelle aree dei planisferi in cui, per mancanza di informazioni, non si poteva scrivere nient’altro.  Era un’indicazione che corrispondeva più o meno a un “cosa ci sia qui proprio non lo sappiamo” e in questo senso si è conservata fino ai giorni nostri.  Con le ribellioni al potere centrale non aveva (e non ha) proprio nulla a che fare.
        È curiosa, lo ammetterete, questa sorta di persistenza retorica della cultura classica, cui si rivolgono in cerca di asseverazione un maitre a pénser del giornalismo laico, il Presidente del Consiglio e due esponenti dell’opposizione radicale, inciampandovi tutti.  Ma certi equivoci, a volte, sono più significativi di quanto sembri.  Così, quella storia del sunt leones mi ha fatto venire in mente che, a pochi giorni dall’arrivo del presidente USA, dell’accoglienza in programma non sappiamo effettivamente niente.  Tutto anzi fa pensare che, per un motivo o per l’altro, partiti, movimenti, leader e ideologi vari non siano riusciti a mettersi d’accordo per una significativa azione comune.  Tra una proposta e l’altra  di imbandieramenti, presidii, cortei, percorsi e quant’altro la confusione, anzi, è tale, che se per le strade capitoline apparissero, putacaso, dei leoni in carne e ossa nessuno avrebbe davvero di che stupirsene.
        Be’, tutto questo – diciamolo – non è confortante.  La benevolenza degli dei, o la stoltezza degli avversari, fate voi, ci aveva dato l’occasione di mostrare al mondo quanto fosse forte, radicato e capace di mobilitarsi il movimento per la pace nel nostro paese.   Se Bush avesse trovato a Roma una manifestazione della portata, per dire, di quella del 20 marzo, la cosa avrebbe fatto certamente rumore e non sarebbe stata senza conseguenze per gli sviluppi politici successivi.  E invece, non si capisce perché, la prospettiva, invece di essere accolta con grida di giubilo, ha sparso il panico nella sinistra.  Sono cominciati i distinguo, le prese di distanza, i “chi ce lo fa fare?” e i “no, no, figuriamoci”.   E se ai partiti maggiori l’idea di manifestare contro gli Stati Uniti ha fatto evidentemente venire l’orticaria, il movimento dei duri e puri si è affrettato a cadere nella prevedibilissima trappola organizzata dalla questura con il semplice espediente di negare una piazza, in modo che qualcuno (un qualcuno di quelli che ci sono sempre) decidesse che la conquista di quella posizione vietata fosse, in sé, molto più importante di qualsiasi esibizione di forza pacificamente organizzata.  Per cui, allo stato, l’unica cosa che della manifestazione futura si può prevedere con relativa certezza sono i titoli dei giornali del giorno dopo, che hanno un’alta probabilità di essere incentrati su chissà quali gonfiatissimi “incidenti”, secondo il modello felicemente messo in opera il 21 marzo.
        Magari, con un po’ di aiuto della Fortuna, non succederà niente del genere.  Ma il rischio, lo ammetterete, c’è.  Perché se fino a qualche tempo fa si usava rimproverare alla sinistra nel suo complesso di fare troppo conto, per ribaltare la situazione politica del paese, sugli errori della destra, adesso la situazione si è capovolta e sono loro che, per tirarsi fuori dalle peste, fanno un gran conto sui nostri errori.  Consapevoli forse che, come dice il saggio, quos perdere vult deus prius amentat, “a coloro che vuole mandare in rovina il dio toglie prima il cervello”.  Con la sintassi saranno un po’ deboli, ma nel cambiare le carte in tavola, credetemi, sono sempre stati i primi della classe.

30.05.04