L'ultima risorsa

La caccia | Trasmessa il: 02/27/2011


    Non so se abbiate anche voi l'impressione che i fatti di Libia, nella loro drammaticità, non siano sempre trattati dai mezzi d'informazione in modo adeguato. A volte, nei commenti e nei servizi che gli si dedicano, si insinua una sgradevole nota di supponenza. Prendete, per esempio, l'articolo con cui Vittorio Zucconi – un giornalista che pure, di solito, sa il fatto suo – ha fatto impietosamente giustizia, su “Repubblica” di mercoledì, del primo appello televisivo di Gheddafi al popolo libico, quello pronunciato dalle rovine del bunker. L'impressione era che quell'intervento non venisse trattato come un discorso politico, come una testimonianza meritevole di attenzione per il fatto stesso di provenire da un uomo che, nel bene o nel male, era stato tra i protagonisti della politica del pianeta. Lo si descriveva, al contrario, come “l'ultimo intervento del dittatore prigioniero della sua follia”, “un passo di addio senza forza e senza dignità”, una sceneggiata squallida e grottesca, della quale si evidenziava soprattutto, “come in tutti i gesti finali dei tiranni che non capiscono perché non possono capire, altrimenti non sarebbero quello che sono”, il senso di solitudine, di abbandono, di impotenza che ne promanava. Che sarà stato tutto vero, naturalmente, anche se i giochi non sembrano ancora chiusi del tutto, ma che, come approccio, non permetteva di affrontare neppure alla lontana il vero problema posto in termini politici e giornalistici da quei terribili eventi: quello di come sia stato possibile un rovesciamento così repentino della situazione, di quali forze lo abbiano permesso e determinato. D'altronde, di Gheddafi, in quarant'anni che è stato al potere, si è sempre preferito parlare più come di una macchietta o di un tiranno (della macchietta di un tiranno, se volete), che come di un leader che se ha resistito tanto a lungo qualche carta da giocare l'avrà ben avuta. Classificandolo, se non proprio tra i “mostri” alla Bokassa e alla Amin Dada, in un ambito analogo al loro, ci si è sempre esentati dall'obbligo di impegnarsi in analisi che potevano portare a risultati imbarazzanti o compromettenti. Come se l'aver stabilito una volta per tutte che di un pazzo, o un lunatico, si trattava, esonerasse dalla necessità di individuare chi, tra i grandi del mondo, l'aveva spinto al potere e gli aveva permesso di restarci, traendone, per ben quattro decenni, ingenti vantaggi. Perché Berlusconi si è senz'altro compromesso parecchio con il colonnello negli ultimi anni, ma lo stesso hanno fatto – minime sfumature a parte – tutti i capi di governo italiani che l'hanno preceduto e buona parte dei leader mondiali che, per un motivo o per l'altro, con il “tiranno” di Tripoli hanno trattato.
    Quanto ai commentatori, una volta dato fondo , per spiegarne le reazioni e i comportamenti, alle categorie della follia o della megalomania sanguinaria, si sono trovati pericolosamente a corto di argomenti. Gheddafi viene considerato, di solito, un nazionalista, ma l'idea di nazionalismo si applica male a un paese come la Libia, che, stretto tra la realtà delle sue molteplici divisioni interne e l'ideologia, fragile ma prestigiosa, del panarabismo, proprio una nazione non è. Si è sempre finito per considerarlo una specie di avventuriero, una sorta di nazionalista senza nazione, un patriota senza patria. Anche Zucconi, del resto, ha visto nel suo proclama finale un “appello inevitabile al patriottismo di comodo”, possibile solo a patto di dimenticare “che il falso patriottismo è sempre l'ultimo rifugio dei mascalzoni, secondo il famoso detto dell'inglese Samuel Johnson”.
    Ahimè. È significativo che il noto giornalista, per poter applicare a Gheddafi la celebre massima, ha dovuto, in parte, falsificarla. Parlando di last resort of the scoundrel, l' “ultima risorsa” appunto “dei mascalzoni”, il grande erudito settecentesco non si è mai limitato al “falso” patriottismo. Provate a fare un controllino (con Google è facilissimo) e vedrete che quell'aggettivo non figura in nessuna delle versioni tramandate della citazione. Lui pensava al patriottismo tout court, a quel minimo comun valore del discorso politico in nome del quale chiunque può invitare chiunque altro a fare qualsiasi cosa perché cosi vuole la Patria, nascondendo, sotto quell'alto richiamo in maiuscola, la bassa realtà di qualsiasi interesse non dichiarato. Alla necessità di pensare soprattutto alla Patria si sarà senz'altro riferito Gheddafi nel suo appello finale, ma lo avranno fatto, d'altronde, anche i suoi oppositori nell'incitare il popolo alla rivolta, per non dire dei padrini internazionali dell'uno e degli altri. Liberarsi del colonnello affermando che il suo patriottismo, oggi, suona falso è davvero un po' troppo facile, proprio come sarebbe troppo facile esaltare il patriottismo dei suoi antagonisti. Forse, per capire quali siano veramente, in questo immane casino, gli interessi del popolo libico, bisognerebbe sforzarsi di mettersi dalla parte di coloro che pensano che la loro patria sia il mondo intero.

27.02.'11