È un bel problema, eh, quello delle vignette antiislamiche pubblicate da
quel quotidiano danese e di tutte le polemiche che ne sono seguite. È
un bel problema perché rappresenta, o sembra rappresentare, un caso insanabile
di contrapposizione tra due sistemi di valore che meritano entrambi di
essere tutelati. Perché è giusto, figuriamoci, che la gente non sia
offesa nelle proprie convinzioni religiose, specie se su di esse ha fatto
degli investimenti ideologici considerevoli, ma ciò non toglie che sia
altrettanto giusto criticare con ogni strumento disponibile, satira inclusa,
ogni persona o idea che, per un motivo qualsiasi, si intende criticare.
Il diritto a essere rispettati è tra i fondamenti della convivenza
civile, ma la libertà di pensiero e di espressione anche e quando le relative
istanze vengono, per così dire, alle mani, non si sa mai come reagire.
In realtà, i due corni del dilemma sono meno
antitetici di quanto a prima vista non paia e li si può conciliare benissimo.
Ma bisogna vedere come. Non si può ricorrere, per esempio,
ai due argomenti in cui più frequentemente, in questi giorni, si sono rifugiati
i commentatori “responsabili” e quasi tutti i politici di un certo
peso da Kofi Annan in giù. Si sono affrettati, costoro, a rispolverare
la nota teoria del “c’è modo e modo”, detta anche dei “limiti da rispettare”,
spiegando che la libertà di critica è sacra, non ci piove, ma oltre un
certo punto non si può spingere, per cui, come scrive, per tutti, Piero
Ottone sulla “Repubblica” del 3 febbraio, parlar male del papa si può
anche, ma scherzare su Gesù Cristo in croce giammai. Che è, a pensarci,
un discorso un po’ a pera, non solo perché ogni volta che si sente qualcuno
discettare sulla differenza tra libertà e arbitrio si può essere matematicamente
sicuri che in nome di quella differenza lui è pronto a vietarci qualsiasi
cosa, ma perché quando si tirano in ballo i limiti bisogna anche precisare
chi li stabilisce e secondo quali criteri, con il che ci si ritrova inesorabilmente
al punto di partenza. E non ci si può neanche salvare considerando
la satira (narrata, disegnata o recitata, non importa) come una categoria
a sé, dalla quale esula qualsiasi componente offensiva, una specie di piacevole
esercizio dialettico esaurito il quale autore e destinatario si scambiano
delle gran manate sulle spalle e vanno insieme a festeggiare all’osteria.
Sono balle. Orazio, che un po’ se ne intendeva, la fa risalire
agli autori della commedia attica antica, sapete, Eupolis atque Cratinus
Aristophanesque poetae (Serm. I, 4, 1) e quando Aristofane raffigurava
Socrate come un pericoloso imbroglione e Cleone come un noto ladro non
parlava così per dire, tanto è vero che i soggetti in questione si incazzavano
di brutto e reagivano ciascuno come poteva. Personalmente ho sempre
pensato che la scena finale del Simposio (St. III, 223d), quella in cui
Socrate e Aristofane discutono piacevolmente di teoria teatrale sia un
tipico esempio di riconciliazione postuma introdotto da Platone per ragioni
affatto personali e senza alcuna attinenza ai fatti.
Niente da fare. La satira è, per definizione,
un’attività offensiva e aggressiva e chi la pratica auspica sempre che
al bersaglio saltino le coronarie dalla rabbia. È una pratica che
i miti possono deplorare, ma queste e non altre sono le sue regole. E
ha comunque dalla sua un paio di elementi che la possono giustificare anche
agli occhi di chi, come me, rifugge dall’aggressività in genere.
Intanto la satira funziona solo quando prende di mira i potenti di questa
terra. Gesù Cristo non c’entra e Maometto neanche: loro sono al
di sopra di queste bassure e ad attaccarli ci sarebbe ben poco sugo. Al
massimo, li si può invocare per attaccare qualcun altro, come fa Giosue
Carducci (Per Eduardo Corazzini, 112-116), quando descrive il papa felicemente
regnante mentre a letto “sogna d’armi e ad un selvaggio agguato / pare
che frema e rugga / e sul capo gli penzola inchiodato / Gesù perché non
fugga”, dei versi che a loro tempo hanno irritato moltissimo i clericali,
ma lui intendeva attaccare appunto Pio IX e aveva degli ottimi motivi per
farlo e sarebbe ipocrita e improprio accusarlo di offesa alla religione.
Il riferimento al Crocefisso inchiodato perché non fugga (che il
poeta, se non erro, prendeva a prestito da Victor Hugo) ha una sua evidente
efficacia sul piano della demistificazione e se ci aggiunge un poco di
effetto choc, .be’, poco male.
Il che ci porta alla seconda considerazione
che potrebbe rendere il ricorso a questa tecnica per offendere gli altri
accettabile e, a volte, persino necessario. La satira non è soltanto
caricatura. Funziona quando “morde”, quando mette in rilievo qualche
grossa contraddizione che il destinatario avrebbe tutto l’interesse a
tenere celata. Un papa che “sogna d’armi”, che – fuori dell’immagine
poetica – ricorre alle armi per difendere il potere temporale, ha poco
a che fare con la mite figura del Cristo in croce. Un capo del governo
che ritrae dall’esercizio della sua funzione immunità giudiziarie e illeciti
arricchimenti personali (mi riferisco a Cleone, eh, non fatevi venire altri
nomi in mente) non è degno del suo mandato. Magari a sentirselo
ricordare in pubblico si arrabbierà, ma questo farà supporre ai più che
l’attacco aveva colto nel vivo, che qualcosa di vero poteva esserci. Se
Socrate, putacaso, avesse accusato Cleone di monopolizzare i sistemi di
comunicazione di massa, non lo avrebbe affatto turbato, anche a prescindere
dal fatto che di veri e propri sistemi di quel tipo ai suoi tempi non ce
n’erano. Se qualche anima ria accusasse me di essere divorziato
e difendere, ciononostante, la dottrina matrimoniale della chiesa cattolica,
reagirei con straordinaria serenità, perché divorziato non sono e quella
dottrina non la difendo affatto. Altri, forse, potrebbero seccarsi
di più. Così, si può supporre che il devoto musulmano che si irrita
per una vignetta in cui il suo Profeta accoglie in paradiso una certo numero
di “martiri della fede” dicendo “Basta, basta, abbiamo finito le vergini”,
lo faccia soprattutto perché dentro di sé si rende conto di come l’ipotesi
di quel tipo di gratificazione post mortem, se presa alla lettera, infici
un poco la credibilità della sua teologia.
Certo, chi aggredisce e offende deve tener
conto delle conseguenze. Se attacca la democrazia, deve saper prevedere
che i reazionari che avrà contribuito a portare al governo potranno, come
primo provvedimento, togliergli la libertà di fare il suo mestiere (successe,
all’ingrosso, ad Aristofane). E se attacca dei violenti, può aspettarsi
qualche ritorsione violenta, dalla quale – peraltro – le autorità hanno
il dovere di proteggerlo, come hanno quello di tutelare la sua libertà
di espressione. Sulla logica di chi, da quelle autorità, pretende
a) delle scuse e b) l’impegno a far sì che l’episodio non si ripeta,
cioè una qualche forma di intervento censorio, non è neanche il caso di
soffermarsi. E anche su quella di chi, per debolezza, paura o innata
tendenza al quieto vivere, accetta quelle pretese, non c’è da dire granché.
Sono forme di servilismo che allignano spesso in chi pretende negli
altri un atteggiamento servile. Ma tutto questo con le offese alla
religione non ha molto a che fare. Con l’offesa a chi della religione
si serve per fini suoi sì, ma questo, di grazia, che cosa c’entra?
05.02.’06