C'è un brano molto significativo in Traditori di tutti, forse il più significativo dei quattro romanzi con i quali Giorgio Scerbanenco, tra il 1966 e il 1969, diede il via alla storia del noir milanese e italiano. È quello in cui Duca Lamberti, il protagonista, in un momento di pausa delle indagini cui stanno attendendo, spiega al brigadiere Mascaranti, il poliziotto che gli fa, in un certo senso, da mentore e spalla, qual è la situazione in città.
“C'è qualcuno” dice “che non ha ancora capito che Milano è una grande città... Non hanno ancora capito il cambio di dimensioni, qualcuno continua a parlare di Milano come se finisse a Porta Venezia, o come se la gente non facesse altro che mangiare panettoni e pan meino. Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualche stupido non dà la situazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa e magari il gamba de legn. Si dimenticano che una città vicina ai due milioni di abitanti ha un tono internazionale, non locale, in una città grande come Milano arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo, e pazzi, alcoolizzati o semplicemente disperati che si fanno affittare una rivoltella, rubano una macchina e saltano sul bancone di una banca gridando: Stendetevi tutti per terra, come hanno sentito che si deve fare”.
Come analisi sociologica potrà sembrare un po' ingenua, anche dal punto di vista della sociologia criminale. Nella Milano degli anni '60, si sa, non affluivano soltanto degli “sporcaccioni”, né, d'altra parte, i più pericolosi tra loro non erano quelli che si facevano affittare una rivoltella e saltavano sul bancone di una banca. Ma Scerbanenco non era un sociologo, era un giornalista e scrittore che, dopo un lunghissimo periodo di galera letteraria nei periodici “rosa”, aveva deciso che per raccontare qualcosa della sua città era forse più opportuno virare al nero (anche se allora non si parlava di noir e le storie di quel tipo erano per tutti i “gialli”, un termine che rispecchia semplicemente il colore delle copertine della collana che le pubblicava in edicola). Sapeva, sicuramente, che Milano (che non avrebbe mai raggiunto i due milioni di abitanti, se non a patto di inglobarvi quelli dei comuni della cintura) un grande centro industriale lo era da decenni e che i ricordi della tradizione, il “colore locale”, risalivano a un passato piuttosto remoto, ma si era reso conto che, ormai, era scattato qualcosa, che la trasformazione violenta che la città viveva in quegli anni aveva un carattere globale e irreversibile, che stavano cambiando non soltanto i costumi e le abitudini, ma la cultura e l'ideologia, compresa – naturalmente – quella criminale. E soprattutto sapeva, più per istinto che altro, che il noir era il genere fatto apposta per raccontare questi mutamenti, per illustrare le crisi e le aporie che ne derivavano.
Quanto a Duca Lamberti, non era (non è) né un sociologo né un poliziotto. È il tipico protagonista del noir poliziesco, un personaggio sociologicamente mal inquadrabile ed eticamente un po' incerto. A voler chiamare le cose con il loro nome, anzi, è un pregiudicato, un ex medico, che ha praticato, per ragioni di coscienza, un'eutanasia, guadagnandosi tre anni di galera e l'espulsione dall'albo), ma è votato comunque alla ricerca, nel caos quotidiano, di una parvenza di ordine e di un briciolo di verità. Una impresa difficile, quasi impossibile, in cui riesce comunque meglio del brigadiere Mascaranti e di tutte le altre persone e organizzazioni ufficialmente delegate alla tutela dell'ordine pubblico.
Ecco: il noir sta tutto in questa doppia dialettica. Fin dalla sua prima comparsa, con I misteri della via Morgue di Edgar Allan Poe, verso la metà del XIX secolo, racconta delle storie metropolitane, o, meglio, delle storie di delitti metropolitani, in cui l'aspetto criminale è una metafora abbastanza trasparente della crisi che vivevano i cittadini delle nuove megalopoli industriali, costretti a rinunciare al loro stile di vita tradizionale e a barattare i vantaggi della nuova organizzazione sociale con le necessità di un rigido inquadramento gerarchico e sociale. L'ascesa vertiginosa della borghesia mette in crisi il sistema dei valori tradizionali, ma crea un mondo in cui allignano il disagio e il senso di costrizione, in cui è fatale sentirsi meno liberi, che è facile percepire come intimamente criminale. E a risolvere i suoi delitti il noir non chiama le forze dell'ordine, la magistratura, la normale struttura repressiva dello stato: affida indagini e punizione a figure stravaganti, a dilettanti (come il Dupin di Poe), a operatori privati (come lo Sherlock Holmes di sir Arthur Conan Doyle), a eclettici vari in perenne antagonismo con la pubblica sicurezza (anche quando, occasionalmente, viene chiamato in azione un poliziotto, si può scommettere che opera in antagonismo con i superiori). Ed è di questo antagonismo che vive il genere: della consapevolezza del fatto che tutta la società è intrisa, per così dire, di delitto e violenza e che a questa condizione possono porre parziale rimedio soltanto delle figure antagoniste. Figure che, il più delle volte, collaborano in qualche modo con magistrati e poliziotti, ma lo fanno alle loro condizioni, senza accettarne né le regole né le procedure. Figure, in definitiva, che si fanno essi stessi la loro “giustizia”.
Naturalmente, nei quasi due secoli di storia del genere noir, si sono compiuti infiniti tentativi di normalizzazione di questo quadro inquietante, di riduzione della sfida originaria tra individuo e istituzioni a innocuo gioco sociale, facendone una specie di enigmistica criminale in cui i lettori erano chiamati al compito (impossibile) di individuare loro il colpevole dei vari delitti proposti dalla trama. Da questo punto di vista, il giallo poté sembrare, a volte, piuttosto stucchevole. Eppure, periodicamente, la sua natura eversiva riemerge, torna prepotentemente alla luce. La morale ambigua, spesso sbrigativa, dei suoi personaggi sembra l'unico atteggiamento possibile per affrontare un mondo come quello in cui anche a noi tocca vivere. Non siamo più ai tempi di Poe, ma i termini del problema sono sempre gli stessi. Il noir è letteratura della società in trasformazione e della relativa crisi di valore, ma la società borghese, si sa, è sempre in trasformazione e i suoi valori sono sempre in crisi e il processo non sembra destinato a concludersi.
Anche Milano, si capisce, non è più quella di Scerbanenco: quegli anni erano, sì, anni difficili, ma erano anche anni di speranze e di proposte: esprimevano una vitalità di cui a volte sembrano essersi perse le tracce. Pure, la città, con tutte le sue contraddizioni, può ancora proporsi come un palcoscenico noir. Lo dimostrano a sufficienza i testi e le opere raccolte in questo volume. Certo, il genere, così come lo intendono i loro autori, ha perso buona parte delle connotazioni poliziesche. Non ha bisogno di indagini e, spesso, non ha neanche bisogno di un delitto vero e proprio, della necessità convenzionale di proporre (o nascondere) un colpevole. La impressione che ne ricava il lettore, anzi, è che i colpevoli li conosciamo tutti benissimo fin dall'inizio, che la colpa, se in questi termini vogliamo parlare, sia assai liberalmente distribuita nel corpo sociale. Non per questo, tuttavia, si sono esaurite le ragioni per parlare della nostra città in quella chiave. Continuano a riproporsi tenacemente le istanze del rifiuto, della spinta antagonistica, della volontà di non piegarsi all'omologazione. Con queste istanze, che rappresentano le ragioni, appunto, del noir, non abbiamo ancora finito di fare i conti. Per fortuna.
Prefazione al libro: Milano noir e giald, Luci e ombre in 36 variazioni - a cura di Cox 18