Non so voi, ma io sono arrivato alla mia (abbastanza)
rispettabile età senza avere idea di che cosa fossero le “regole d’ingaggio”.
Sapevo, certo, che l’ingaggio era, come spiegano i vocabolari, “l’atto
dell’ingaggiare” e non ignoravo che questo verbo, dall’antico francese
engagier, correlato a sua volta con un gage, “pegno”, che, nella forma
“gaggio”, si ritrovava un tempo anche in italiano, indicava appunto l’impegno
a svolgere un’attività definita, a pena di un danno di carattere pecuniario
o di altro tipo. Avevo sentito parlare del “premio d’ingaggio”,
che, come spiega lo Zingarelli, è “la somma spettante a chi viene ingaggiato,
specie atleti tesserati da società sportive” e avrei forse potuto
osservare, se ci avessi pensato, che un valore del genere si può individuare
anche nell’inglese engagement, che è un sinonimo di “fidanzamento”,
una cosa che più impegnativa di così non potrebbe essere (e una volta comportava
anche il rischio, per gli inadempienti, di rimetterci la dote), per non
dire del francese engagé, che sposta il problema nell’area ideologica,
come quando lo si applica, a torto o a ragione, agli intellettuali. Ma
con questo, se si prescinde da un accenno piuttosto oscuro dei vocabolari
alla mossa di inizio nel gioco dell’hockey, lo spettro semantico di quella
parola per me poteva dirsi esaurito. Non vi si trovavano accenni
a regole precise, né si vedeva come tutto ciò potesse applicarsi alla guerra
in Iraq, a meno di riferirsi all’arruolamento di quanti avrebbero dovuto
combatterla, che non sono soldati di leva, anche se – non ho mai capito
perché – non si possono definire mercenari, o alla figura di Berlusconi,
che non sarà un intellettuale, ma nel non voler ritirare le truppe è sicuramente
engagé e con Bush, com’è noto, si considera più engaged di ogni altro
uomo di governo europeo.
Ahimè. Il linguaggio,
nella sua incessante attività di ricategorizzazione e riformulazione, ha
creato e ci ha imposto anche le “regole di ingaggio”. Visto che
il verbo “ingaggiare”, non so se per allusione al fidanzamento, si può
riferire anche all’inizio di una attività ostile, come in “ingaggiare
battaglia”, si definiscono con quella espressione i parametri che gli
stati maggiori utilizzano per stabilire quando e come i militari in azione
devono attaccare il nemico, per decidere, in sostanza, se sia il caso sparare
appena si avvista qualcuno che si ha motivo di ritenere ostile o se, come
nei western del tempo che fu, per fare fuoco bisogna aspettare almeno che
l’avversario metta mano alla sua pistola. È una accezione, lo ammetterete,
molto peculiare, gergale quasi, ma è entrata nelle nostre conversazioni
di tutti i giorni per via dell’abitudine, tipica dei media di oggi, di
imporre a tutti gergalità varie e usi specialistici assortiti, senza prendersi
necessariamente la briga di spiegarne prima il significato. Per questo,
oggi, siamo avvezzi a leggere sui giornali dei fatti di sciiti e sunniti,
senza avere – in genere – quel minimo di competenza in teologia islamica
che ci permetterebbe di capire cosa significhino quei due termini (tanto
è vero che i più li considerano riferiti a due etnie) e non ci saziavamo,
appena ieri, delle prediche sul tasso di sconto e sulla necessità di abbassarlo,
anche se su cosa fosse un tasso e su come diavolo si potesse spingerlo
all’ingiù avevamo quasi tutti delle idee assai confuse.
Niente di male, naturalmente.
Quello di fingerci più dotti di quanto siamo ricorrendo con simulata
disinvoltura ai linguaggi tecnici è, tutto sommato, un peccato veniale.
I veri esperti non se ne hanno a male e sorridono appena delle gaffes
verbali che questa abitudine il più delle volte comporta.
Salvo, naturalmente, quando non di gaffes si tratta, ma
di reticenze volute. Perché un gergo, di qualsiasi tipo, ha due funzioni
fondamentali: quella di facilitare la comunicazione e renderla più affidabile
all’interno del gruppo che lo ha creato e lo adotta e quello di escluderne,
più o meno radicalmente, chi di quel gruppo non fa parte. In questo
secondo caso i gerghi hanno, più o meno, la stessa funzione degli eufemismi,
nel senso che è ovvio che parlare di “regole d’ingaggio” e della
necessità di modificarle è molto più tranquillizzante per tutti che chiedersi
se ai “nostri ragazzi”, i militari che il governo ha mandato irresponsabilmente
nell’inferno dell’antica Babilonia, non sia il caso di consigliare, se
vogliono riportare a casa la pelle, di aprire il fuoco a vista su qualsiasi
bipede irakeno si muova o se non sia meglio prescrivergli un atteggiamento
rigidamente difensivo, anche a rischio di subire le perdite che in certe
situazioni quell’atteggiamento comporta. Spesso in guerra l’alternativa
che ci si pone è quella tra l’uccidere e l’essere uccisi e non sono,
queste, problematiche che un ceto politico attento soprattutto ai sondaggi
ami particolarmente affrontare. Anche perché, come hanno dimostrato
nei giorni scorsi le parole del ministro della Difesa, di quello degli
Esteri e del Presidente del Consiglio, coloro, pur avendoci trascinato
in guerra, si ostinano a negare che la guerra ci sia ed essendo la nostra,
a loro avviso, una “missione di pace”, non è possibile che chi la esercita
ammetta di valersi di regole che con la pace hanno poco o nulla a che fare.
In Italia, d’altronde, si fa sempre così, anche quando
la serietà della situazione sembrerebbe escluderlo. Si va avanti
improvvisando, facendo una cosa e dicendone un’altra, nella fiducia di
riuscire a nascondere qualsiasi realtà spiacevole dietro una spessa cortina
di parole. Se qualcuno è destinato a lasciarci la pelle, pazienza:
non mancheranno (non sono mancate) parole neanche per lui. Anche
questa è una regola. Ma una regola, naturalmente, che la dice lunga
sul livello morale di chi la applica.
23.05.’04