Regole

La caccia | Trasmessa il: 05/23/2004



Non so voi, ma io sono arrivato alla mia (abbastanza) rispettabile età senza avere idea di che cosa fossero le “regole d’ingaggio”.  Sapevo, certo, che l’ingaggio era, come spiegano i vocabolari, “l’atto dell’ingaggiare” e non ignoravo che questo verbo, dall’antico francese engagier, correlato a sua volta con un gage, “pegno”, che, nella forma “gaggio”, si ritrovava un tempo anche in italiano, indicava appunto l’impegno a svolgere un’attività definita, a pena di un danno di carattere pecuniario o di altro tipo.  Avevo sentito parlare del “premio d’ingaggio”, che, come spiega lo Zingarelli, è “la somma spettante a chi viene ingaggiato, specie atleti tesserati da società sportive” e  avrei forse potuto osservare, se ci avessi pensato, che un valore del genere si può individuare anche nell’inglese engagement, che è un sinonimo di “fidanzamento”, una cosa che più impegnativa di così non potrebbe essere (e una volta comportava anche il rischio, per gli inadempienti, di rimetterci la dote), per non dire del francese engagé, che sposta il problema nell’area ideologica, come quando lo si applica, a torto o a ragione, agli intellettuali.  Ma con questo, se si prescinde da un accenno piuttosto oscuro dei vocabolari alla mossa di inizio nel gioco dell’hockey, lo spettro semantico di  quella parola per me poteva dirsi esaurito.  Non vi si trovavano accenni a regole precise, né si vedeva come tutto ciò potesse applicarsi alla guerra in Iraq, a meno di riferirsi all’arruolamento di quanti avrebbero dovuto combatterla, che non sono soldati di leva, anche se – non ho mai capito perché –  non si possono definire mercenari, o alla figura di Berlusconi, che non sarà un intellettuale, ma nel non voler ritirare le truppe è sicuramente engagé e con Bush, com’è noto, si considera più engaged di ogni altro uomo di governo europeo.
        Ahimè.  Il linguaggio, nella sua incessante attività di ricategorizzazione e riformulazione, ha creato e ci ha imposto anche le “regole di ingaggio”.  Visto che il verbo “ingaggiare”, non so se per allusione al fidanzamento, si può riferire anche all’inizio di una attività ostile, come in “ingaggiare battaglia”, si definiscono con quella espressione i parametri che gli stati maggiori utilizzano per stabilire quando e come i militari in azione devono attaccare il nemico, per decidere, in sostanza, se sia il caso sparare appena si avvista qualcuno che si ha motivo di ritenere ostile o se, come nei western del tempo che fu, per fare fuoco bisogna aspettare almeno che l’avversario metta mano alla sua pistola.  È una accezione, lo ammetterete, molto peculiare, gergale quasi, ma è entrata nelle nostre conversazioni di tutti i giorni per via dell’abitudine, tipica dei media di oggi, di imporre a tutti gergalità varie e usi specialistici assortiti, senza prendersi necessariamente la briga di spiegarne prima il significato.  Per questo, oggi, siamo avvezzi a leggere sui giornali dei fatti di sciiti e sunniti, senza avere – in genere – quel minimo di competenza in teologia islamica che ci permetterebbe di capire cosa significhino quei due termini (tanto è vero che i più li considerano riferiti a due etnie) e non ci saziavamo, appena ieri, delle prediche sul tasso di sconto e sulla necessità di abbassarlo, anche se su cosa fosse un tasso e su come diavolo si potesse spingerlo all’ingiù avevamo quasi tutti delle idee assai confuse.
        Niente di male, naturalmente.  Quello di fingerci più dotti di quanto siamo ricorrendo con simulata disinvoltura ai linguaggi tecnici è, tutto sommato, un peccato veniale.  I veri esperti non se ne hanno a male e sorridono appena delle gaffes verbali che questa abitudine il più delle volte comporta.
Salvo, naturalmente, quando non di gaffes si tratta, ma di reticenze volute.  Perché un gergo, di qualsiasi tipo, ha due funzioni fondamentali: quella di facilitare la comunicazione e renderla più affidabile all’interno del gruppo che lo ha creato e lo adotta e quello di escluderne, più o meno radicalmente, chi di quel gruppo non fa parte.  In questo secondo caso i gerghi hanno, più o meno, la stessa funzione degli eufemismi, nel senso che è ovvio che parlare di “regole d’ingaggio”  e della necessità di modificarle è molto più tranquillizzante per tutti che chiedersi se ai “nostri ragazzi”, i militari che il governo ha mandato irresponsabilmente nell’inferno dell’antica Babilonia, non sia il caso di consigliare, se vogliono riportare a casa la pelle, di aprire il fuoco a vista su qualsiasi bipede irakeno si muova o se non sia meglio prescrivergli un atteggiamento rigidamente difensivo, anche a rischio di subire le perdite che in certe situazioni quell’atteggiamento comporta.  Spesso in guerra l’alternativa che ci si pone è quella tra l’uccidere e l’essere uccisi e non sono, queste, problematiche che un ceto politico attento soprattutto ai sondaggi ami particolarmente affrontare.  Anche perché, come hanno dimostrato nei giorni scorsi le parole del ministro della Difesa, di quello degli Esteri e del Presidente del Consiglio, coloro, pur avendoci trascinato in guerra, si ostinano a negare che la guerra ci sia ed essendo la nostra, a loro avviso, una “missione di pace”, non è possibile che chi la esercita ammetta di valersi di regole che con la pace hanno poco o nulla a che fare.
In Italia, d’altronde, si fa sempre così, anche quando la serietà della situazione sembrerebbe escluderlo.  Si va avanti improvvisando, facendo una cosa e dicendone un’altra, nella fiducia di riuscire a nascondere qualsiasi realtà spiacevole dietro una spessa cortina di parole.   Se qualcuno è destinato a lasciarci la pelle, pazienza: non mancheranno (non sono mancate) parole neanche per lui.  Anche questa è una regola.  Ma una regola, naturalmente, che la dice lunga sul livello morale di chi la applica.

23.05.’04