Non conosco, naturalmente, i motivi per cui il Presidente della Repubblica,
su proposta del Ministro degli Interni, ha ritenuto di conferire la medaglia
d’oro al valor civile alla memoria di Fabrizio Quattrocchi, un personaggio
di cui pure non so molto, salvo il fatto che gli spetta tutto il rispetto
dovuto a chi ha perso la vita in un paese ostile, scontando colpe e responsabilità
che non sono certamente sue. Non so neanche perché di analoghe onoranze
non siano stati giudicati degni né Enrico Baldoni, né alcun altro degli
ormai troppi connazionali che nell’antica Babilonia sono andati a farsi
tragicamente ammazzare, ma ogni caso – naturalmente – è diverso dagli
altri, come diverse sono le considerazioni che ispira. Immagino anch’io,
come molti, che il presidente, cui sono notoriamente cari i valori dell’identità
nazionale, sia stato suggestionato soprattutto dalle ultime parole dell’ostaggio
prigioniero, da quel “vi faccio vedere come muore un italiano” che, registrato
da un video impietoso, è stato poi divulgato dai media in tutta la sua
drammaticità. E anche se io, personalmente, quel documento avrei
preferito non trasmetterlo, non voglio certo negare che si tratti di un’affermazione
che fa onore a chi ha avuto la forza, in quel momento, di pronunciarla.
Questo non significa, tuttavia, che gli italiani
possano o debbano morire in maniera particolare. Muoiono, ahimè,
come tutti gli altri: con coraggio, se di coraggio sono dotati, e senza,
se quel dono non è stato loro concesso. Qualcuno muore disperandosi,
qualcuno con dignità, qualcuno con fatica e qualcun altro – i più fortunati,
a dire degli antichi – senza accorgersene nemmeno. Privilegiato,
in ogni popolo e in ogni paese, è chi sa trovare nelle proprie certezze,
nelle proprie speranze, nelle proprie illusioni o semplicemente nella propria
adrenalina la forza di esprimere in extremis almeno una ipotesi sul significato
di una vicenda, la vita di noi tutti, il cui significato ultimo è appunto
solo quello che gli sa dare ciascuno dei suoi protagonisti. La raccolta
delle ultime parole degli uomini famosi è un genere tanto diffuso, in tutte
le letterature, proprio perché offre a tutti un modello cui ciascuno spera,
a tempo debito, di sapersi adeguare, l’atteggiamento di chi, di fronte
alla prospettiva dell’inevitabile annichilimento, non abdica al compito
squisitamente umano di esprimere, finché può ancora esprimerne, valori
e significati. Il concetto, si sa, è di lontana origine stoica, ma
è stato fatto proprio da tempo da tutta la cultura occidentale, laica e
religiosa, e trova precise corrispondenze in molte altre tradizioni, com’è
forse inevitabile, vista l’universalità dell’esperienza cui rimanda.
Onore dunque a Fabrizio Quattrocchi, che, nella
prospettiva imminente di venire brutalmente assassinato, ha voluto legare
il senso della propria vita all’orgoglio di essere italiano. È stata
una scelta sua e anche chi non la dovesse condividere è tenuto a rispettarla
e onorarla. E tra gli impegni di chi la vuole onorare, naturalmente,
dovrà esserci anche quello di astenersi dalle sciocchezze, tipo dire che
il riconoscimento presidenziale può giovare alla riqualificazione del ruolo
delle boodyguards o i vari tentativi di annettersi la frase in questione
alla stregua di uno slogan politico qualsiasi. Il problema, in queste
circostanze, è che gli stessi riconoscimenti ufficiali, medaglie comprese,
corrono il rischio di sembrare inadeguati, se non addirittura derogatori,
proprio perché richiamano con innegabile brutalità coloro che vogliono
onorare dalla sfera dei valori esistenziali a quella delle del banale dibattito
di tutti i giorni. Fortunati – come dice il poeta – sono i paesi
che non hanno bisogno di eroi e ancora più fortunati quelli che sanno resistere
alla tentazione di farsene una bandiera.
26.03.’06