Ricordi di scuola

La caccia | Trasmessa il: 11/27/2011


    Ricordi di scuola

    Non so voi, ma a me questa storia dei deputati che si scambiano in aula delle comunicazioni scritte riservate e si incazzano di brutto quando, per caso o per malizia altrui,le si scoprono e le si rendono note, ha ricordato non tanto i “pizzini” dei capi mafiosi, secondo l'irrispettoso paragone messo in atto da qualche cronista, ma i bigliettini che ci scambiavano da ragazzotti sui banchi di scuola. Veramente, per me è soprattutto un ricordo da insegnante, di uno – cioè – che se li vedeva passare continuamente sotto il naso e non sapeva decidere se fosse meglio far finta di niente o intervenire in qualche modo per riportare i riottosi a una qualche forma di attenzione per la spiegazione in corso, ma anche da studente, alle elementari, alle medie e persino al liceo, ne ho avuto qualche esperienza. Ricorderete anche voi, suppongo, la tecnica relativa: si staccavano le pagine centrali dal primo quaderno disponibile, se ne ricavava un frammento di grandezza adeguata, si scriveva il testo, si ripiegava il tutto quattro, otto, sedici volte e lo si avviava al destinatario attraverso la catena umana dei compagni che occupavano i posti intermedi tra il tuo e il suo. C'erano dei problemi, naturalmente, come quello di evitare che sul percorso si trovasse qualche curioso con la propensione a intercettare la posta altrui, ma la difficoltà principale era rappresentata, in realtà, dal “salto” da una fila all'altra, che rendeva la trasmissione piuttosto a rischio. Si poteva cercare di risolverla, ricordo, collocando il biglietto in un libro o in un astuccio da passare con bella disinvoltura al compagno della fila adiacente sotto gli occhi stessi dell'autorità, come se colui che la impersonava fosse di necessità così tonto da non rendersi conto dei fini della operazione. Il rischio principale, naturalmente, era quello che il cerbero in cattedra, una volta o l'altra, perdesse la pazienza e si facesse consegnare il pezzo di carta, dandone magari lettura in pubblico, il che poteva essere abbastanza imbarazzante, perché i suoi contenuti, quali che fossero (richieste di aiuto, commenti sugli astanti, intrighi amorosi o pettegolezzi vari) erano sempre di natura piuttosto privata e quella dello studente sagace che teneva sempre con sé un bigliettino di riserva da esibire se richiesto, con su scritto “Come è simpatica la maestra” o “Quanto siamo fortunati ad avere un prof così bravo”, era soltanto una leggenda metropolitana. Ma tutto sommato, a correre quel pericolo erano soltanto gli scolari del ciclo inferiore: dal ginnasio in su gli stessi docenti si rendevano conto di non potere più sottoporre i discepoli a reprimende così caratterizzate in senso infantile e non potevano fare altro che assistere impotenti al traffico che si svolgeva sotto i loro occhi.
    Anche nell'aula della Camera e del Senato c'è una cattedra su cui siede l'Autorità, ma tra i poteri dell'onorevole Fini e del senatore Schifani non è compreso quello di intercettare le comunicazioni private dei parlamentari. Il pericolo, abbiamo appreso, è rappresentato piuttosto dai fotografi, che, appostati nelle gallerie superiori e provvisti di potenti teleobiettivi, non hanno difficoltà a render pubblico il caso del premier che scambia ammicamenti salaci con le deputate più avvenenti o che compila, durante il voto sul bilancio, l'elenco dei “traditori” che non votano per lui, o quello del dirigente democratico che scrive al nuovo presidente del consiglio che se ha bisogno di qualche consiglio in tema di nomine di sottosegretari, o simili, lui è sempre a disposizione. Tutte comunicazioni piuttosto innocenti, s'intende, perché non c'è niente di male nello scherzare con una bella onorevole, nell'annotarsi i nomi dei deputati più infidi o nell'offrire un consiglio al professor Monti, ma tutte comunicazioni la cui diffusione mettono in qualche modo in imbarazzo l'interessato, con conseguenza richiesta che ai responsabili sia precluso l'accesso in aula o l'utilizzo di apparati ottici tanto pericolosi, a dimostrazione del fatto che la logica per cui, di fronte al pericolo che comunicazioni disdicevoli siano intercettate basta vietare le intercettazioni non è limitata ai leader del centrodestra, ma è largamente diffusa nel ceto politico nazionale.
    Pazienza. A questo genere di amare verità siamo, tutto sommato, assuefatti. Quello che francamente mi ha stupito è il fatto che per mandare i loro messaggi gli onorevoli in questione abbiano sentito il bisogno di ricorrere proprio a quello strumento. Non ce n'era, francamente, alcun bisogno. Il buon Letta avrebbe benissimo potuto aspettare una pausa nei lavori per rivolgersi pubblicamente a Monti, del che nessuno si sarebbe stupito, visti anche i rapporti parlamentari vigenti, o, in forma più riservata, per fargli una telefonata o mandargli un SMS. Berlusconi, che non è esattamente un uomo affetto da timidezza, avrebbe potuto benissimo affidare alla viva voce le sue innocue galanterie, come ha fatto in tante altre occasioni. È stato il carattere in qualche modo clandestino, vagamente occulto, di quegli scambi che gli ha conferito un che di sospetto, facendo sì che si parlasse di “pizzini” e si scomodasse la presidenza di entrambe camere invocando inutili azioni repressive. Perché la privacy è la privacy, certo, ma quello che si dice e si scrive in Parlamento dovrebbe essere conosciuto e conoscibile da chiunque. In quegli ambienti, comunicazioni riservate non dovrebbero proprio essercene, per quanto futili.
    E allora perché? Be', a pensarci, neanche dei bigliettini a scuola c'era una vera e propria necessità. Anche in quel caso, sarebbe bastato aspettare la fine dell'ora per rivolgersi al destinatario in piena tranquillità, senza che nessuno potesse averci da ridire. Ma ci annoiavamo: eravamo lì, confinati in quegli stupidi banchi, ad ascoltare spiegazioni noiose su argomenti di cui non ci avrebbe potuto importare di meno e a un certo punto veniva spontaneo, per ingannare il tedio, prendere un quaderno, staccarne le pagine centrali, dividerle in quattro, scrivere sul foglietto che se ne ricavava la prima sciocchezza che ci veniva in mente, ripiegarlo due, quattro, sedici volte e inoltrarlo al compagno fidato o all'amica del cuore all'altra estremità dell'aula. Era sostanzialmente un modo per passare il tempo e immagino che lo stesso problema si ponga anche per i deputati, i cui scranni non sembrano molto più comodi dei nostri banchi, e che sono costretti anche loro a sorbirsi prolusioni e discussioni che più pizzose di così non potrebbero essere. La differenza, naturalmente, è che noi a scuola dovevamo andare per forza, loro a frequentare il Parlamento non li costringe nessuno, anzi, spesso brigano per andarci. La carica, si sa, comporta un certo numero di privilegi. In nome dei quali, forse, gli si potrebbe chiedere di sopportare con dignità un poco di noia.

    27.11.'11