Giuro, giuro solennemente che in tanti
anni che recensisco gialli e affini, qui a Radio Popolare o altrove, non
ho mai raccomandato, né sconsigliato agli ascoltatori un libro che non
avessi letto da cima a fondo. Si tratta, in realtà, di una pratica
più diffusa di quanto non si supponga e facilitata dall’usanza, cara agli
uffici stampa delle case editrici, di accompagnare le copie inviate per
recensione con un accurato riassunto dell’opera e un ampio repertorio
delle critiche già apparse, ma vi garantisco di non essermici mai piegato.
Come ho già avuto occasione di dichiarare, scrivere di libri è una
pratica già abbastanza noiosa in sé perché ci si debba negare l’unico
piacere che i libri possono dare, che è quello, ovviamente, di leggerli.
Mi
è tuttavia capitato in mano, giorni fa, un romanzo che sono fortemente
tentato di sconsigliare a chiunque, anche se non l’ho letto e non ho,
al momento, nessuna intenzione di leggerlo. E capirete: un’opera
di narrativa conta per sé, come a dire per il proprio testo, ma i testi,
nella pratica editoriale corrente, sono scortati da un “paratesto” (le
indicazioni in prima e quarta di copertina, nei risvolti e via andare)
da cui non è facile prescindere. E il paratesto dell’opera in questione,
ve lo assicuro, è tale che sembra fatto apposta per scoraggiare qualsiasi
lettore di buona volontà.
Cominciamo,
non vi sembri strano, dal cognome dell’autrice. Ecco: il cognome
degli autori, in sé, non fa parte del paratesto, e, non essendo nessuno
responsabile del nome che porta, non dovrebbe aver un gran peso critico,
salvo che per possibili riferimenti a opere precedenti, il che, trattandosi
di un’opera prima, qui non è il caso. Ma se l’autrice, poveretta,
si chiama (o si firma) Karin Slaughter, c’era proprio bisogno, secondo
voi, di piazzare in quarta di copertina, sotto la sua foto, una voce del
Ragazzini che spiega come il sostantivo slaughter in inglese significhi
“1) macellazione; mattazione (raro)” e “2 (fig.) macello; carneficina;
massacro; strage)”? E vi pare sensato cambiare in Corpi il
titolo di un romanzo, che, nell’originale, suonava A Faint Cold Fear (qualcosa
come “Una fredda paura sottile”), illustrando la copertina con l’immagine
della lama insanguinata di un coltellaccio e aggiungendovi a mo’ di “strillo”
la raccomandazione “Non leggetelo di notte. Non leggetelo da soli”?
Che se poi qualcuno chiedesse lumi ai risvolti, apprenderebbe che
dalle pagine dell’autrice trasudano una violenza e una perversione che
c’è solo da sperare non siano “uno specchio fedele della provincia americana”
e che, d’altronde, con il cognome che si ritrova, la nostra Karin “a
parte aprire un mattatoio” … “non avrebbe potuto trovarsi un lavoro
più azzeccato.” Quanto alla trama, be’, le informazioni sono succinte,
ma esaurienti. Ha a che fare con uno studente che muore, sembra,
suicida, con la coroner locale che si presenta a ispezionare la salma in
compagnia di una sorella incinta di otto mesi (la prospezione di cadaveri,
com’è noto, è pratica raccomandatissima alle gestanti, ma la poveraccia,
a quanto pare, verrà quasi subito accoltellata) e con il fatto che, di
colpo, “la placida e rispettabile contea di Grant”, in Georgia, “precipita
in un incubo terrificante” a base di “violenze domestiche, traffici di
droga e festini a luce rosse, mentre il numero dei morti continua a salire”
e una protagonista, ex poliziotta e guardia di sicurezza del campus locale,
che dovrà infine risolversi “ad affrontare da sola le proprie paure, in
un finale agghiacciante e brutale”.
Avrete
notato che nessuna delle informazioni fornite dall’editore con lo scopo,
si presume, di incoraggiare l’acquisto e la lettura del libro, ha minimamente
a che fare con il suo valore letterario. Su questo, io, avendo deciso
di non leggere il romanzo, non posso, ovviamente, ragguagliarvi. Non
so neanche se la giovane Slaughter sia davvero così trucida come assicura
il suo editore italiano. Ma so benissimo che di un libro che mi si
raccomanda solo in nome di un contenuto violento non so assolutamente che
fare. Il rischio di imbattersi in una presentazione editoriale troppo
lusinghiera, in un paratesto, se mi permettete il bisticcio, un po’ paraculo,
è naturalmente di quelli che corre qualsiasi lettore, ma da quello abbiamo
imparato tutti a difenderci. Proposte di questo genere, invece, non
sono sindacabili in alcun modo: sono, semplicemente, irricevibili.
Vedete,
io non sono un ammiratore di quella che un tempo, facendo torto alle lettrici
non sposate, si definiva “letteratura per signorine”. So che viviamo
in un mondo violento e che, volendo rappresentarlo e dare ragione dei suoi
problemi, dalla violenza non si può prescindere. La stessa editrice
Piemme, quella che pubblica il romanzo in questione, ha in catalogo autori
come Michael Connelly e Robert Crais che in materia non si tirano indietro
e che io ho sempre apprezzato. Ma un conto è trattare la violenza
come un problema su cui riflettere, un altro esibirla come un genere di
consumo. Se di un libro coloro che più di tutti dovrebbero aver interesse
a magnificarne i pregi, non si sprecano neanche a dire che è scritto bene,
mi si limitano ad assicurarmi che vi sono descritti molti fatti efferati,
tanto che l’autrice potrebbe benissimo aprire un mattatoio, mi spiace,
ma io non lo leggo.
È
strano, comunque, lo statuto di quel – come possiamo chiamarlo? Concetto?
Valore? – , be’, insomma, lo statuto della violenza nella cultura di
oggi. È una prassi largamente diffusa, a livello pubblico e privato,
un valore di cui la società intera è imbevuta e di cui si vantano i governi,
che ne rivendicano l’inevitabilità in nome del fine che, adottandola,
ci si propone. D’altro canto, è anche un disvalore che mette automaticamente
dalla parte del torto chi lo assume a livello individuale. Con tutti
si tratta, per tutti c’è posto, ma con i violenti e per i violenti no,
proclamano quegli stessi statisti che mandano le truppe a combattere o
che organizzano e pianificano le “esecuzioni mirate” dei loro nemici,
non importa se a colpi di missile o mediante iniezione letale. E
quando la contraddizione sembra davvero difficile da mandar giù, quando
la gente capisce che c’è qualcosa che non va, il pubblico ritorna privato
e si finisce sempre per scoprire che a esercitare violenza – anche sul
terreno di guerra, anche in regime di occupazione militare – sono, guarda
un po’, soltanto dei devianti singoli, delle “mele marce” qualsiasi,
degli individui corrotti che verranno, non se ne discute nemmeno, individuati
con prontezza e puniti con severità. Non è solo un problema di ipocrisia:
è una contraddizione di fondo, anche se troppo grossa, probabilmente, per
sperare di esaurirla in questa sede. Ma è quella, comunque, in
cui si annidano le varie Karin Slaughter di questo mondo, e quanti ne sfruttano
l’opera. Una volta ogni tanto, forse, può valer la pena di non stare
al gioco.
17.05.’04