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Gialloliva
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Una guerra normale
La caccia
| Trasmessa il: 04/03/2011
Vi devo aver già citato, in una precedente chiacchierata, la massima di Clemenceau per cui la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali. È un'affermazione apparentemente paradossale, che, pure, la storia si è incaricata di confermare infinite volte. Anche in queste settimane, in cui i venti di guerra hanno ricominciato a soffiare sul Mediterraneo – muovendo, in genere, proprio dalle nostre coste – non passa giorno senza che un rappresentante di quella benemerita categoria, di solito l'ex capo di stato maggiore di qualcosa, o l'ex responsabile di qualche importante missione internazionale, si produca sulla stampa o in televisione nel tentativo di spiegare a noi cittadini ignari la logica delle operazioni, in termini, in genere, affatto terrificanti. Così, è possibile leggere, su “Repubblica” di mercoledì scorso, l'opinione a tutta pagina di Fabio Mini, che è stato comandante delle forze Nato in Kosovo e credo sia vicino, per quanto è possibile esserlo a un generale, al centrosinistra. Secondo costui “la strategia moderna contempla la guerra come un fatto normale, senza fine, senza misura certa della vittoria o della soglia della capitolazione”. Un'affermazione abbastanza preoccupante, che lo diventa ancora di più quando si legge che di tale normalità fanno parte “i bombardamenti di questi giorni in Libia, i ribelli che combattono e i civili che scappano”, nonché “la disparità delle forze in campo, la volontà di usarle e la varietà di posizioni espresse sul piano politico-diplomatico”. Ciò significa, prosegue l'alto ufficiale, che “mentre la politica celebra i suoi riti, sul terreno la guerra si fa sempre più 'normale'”. E questo nonostante una certa diffusa malavoglia, dovuta sia ai “precedenti disastrosi degli ultimi vent'anni” sia alla “nebulosità degli scopi politici”. Di fatto, apprendiamo, “il Pentagono si è opposto fin dal primo giorno, i francesi hanno bombardato quasi alla chetichella, le ragazze inglesi non si sono messe a tette nude per incitare i soldati e i generali italiani si sono rifugiati in fretta nelle procedure della Nato senza prendersi il tempo di spiegarle bene ai nostri ministri”, eppure “la parte militare della coalizione prosegue con i suoi piani d'attacco ed anzi si adegua ad uno sviluppo ancora più normale dei combattimenti”. Come a dire, se ho capito bene, che le esitazioni, i dubbi, i distinguo dei governi non vanno presi assolutamente sul serio, che quella di limitare le operazioni, secondo il mandato Onu, alla protezione dei civili è una pia illusione e che i bombardamenti e gli attacchi proseguiranno sempre più micidiali secondo una logica tutta loro, perché una volta eliminata la contraerea di Gheddafi “gli aerei alleati si avvicinano a terra, lanciano razzi e attivano le cannoniere volanti per gli attacchi al suolo, com'è normale”. Dove porterà questa sorta di automatismo bellico, questa normale volontà distruttiva, non viene specificato, ma è abbastanza chiaro che l'obiettivo finale non potrà che essere quello dell'eliminazione dell'attuale dirigenza libica e della presa di controllo di tutto il paese.
Il problema, naturalmente, è quello di cosa fare del paese una volta presolo sotto controllo e da parte di chi. Abbattere il dittatore e instaurare la democrazia, come si dice, sono compiti che si può assumere soltanto il popolo libico: non toccano certo a una “coalizione di volonterosi” ciascuno dei cui membri persegue i propri, contrastanti interessi e della quale, d'altronde, fanno parte, d'altronde, anche paesi che dal punto di vista della democrazia lasciano parecchio a desiderare, tipo il Qatar, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti. E con tutto il rispetto per quei giovanotti coraggiosi ma un poco inquietanti, che vediamo in televisione agitare come pazzi i loro kalashnikov e fare il segno della vittoria con tanto maggiore entusiasmo quanto più dalla vittoria sono lontani, non si direbbe proprio che rappresentino la forza capace di avviare il processo di rinnovamento di cui il paese ha bisogno, che possano – cioè – esprimere un nuovo consenso e un nuovo ceto dirigente. Questo rappresenterebbe un tipico problema politico, ma in Libia, oggi, la politica è muta e parlano solo le armi,tanto è vero che, di fronte alle difficoltà dei ribelli, si pensa appunto di armarli, senza stare troppo a sottilizzare sul mandato dell'Onu e senza pensare che l'incremento degli armamenti sul campo non è mai stato la garanzia di una rapida soluzione e aumenta piuttosto le concrete prospettive di carneficina.
Insomma, in Libia la situazione era e resta difficile, ma la scelta dell'intervento militare senza se e senza ma non sembra precisamente in grado di risolvere i problemi di quel popolo. È da decenni, dai tempi, almeno, della prima guerra del Golfo, nel 1991, che assistiamo al ripetersi dell'illusione (o della pretesa) che l'intervento armato, possibilmente “chirurgico”, senza perdite per chi lo promuove e con il minimo di “danni collaterali” per chi lo subisce, tolga di mezzo i fattori di crisi con l'asettica efficienza di una bacchetta magica e faccia fiorire in quei paesi tormentati la pace e la democrazia. Ogni volta, regolarmente, i bombardieri si sono lasciati alle spalle dei paesi distrutti, in preda alla guerra civile, in cui le ingiustizie originarie sono state moltiplicate e le sofferenze delle popolazioni non hanno trovato né compenso né giustificazione. Perché, Clausewitz o non Clausewitz, i militari fanno il loro mestiere anche quando i politici non sanno fare il loro e la guerra segue sempre la stessa logica, che è quella della capacità di distruggere e dell'intimazione a cedere sotto la minaccia di distruzioni ulteriori.
Cosa succederà della Libia una volta che Gheddafi, più o meno proditoriamente, sarà stato tolto di mezzo non lo sappiamo certamente noi, ma è fin troppo facile supporre che non vi tornerà automaticamente la pace. Uno stato di guerra permanente a poche centinaia di chilometri dalla Sicilia, naturalmente, è proprio quello di cui l'Italia ha bisogno e forse varrebbe la pena di provare a spiegarlo al nostro governo. Ma quelli, si sa, sono troppo impegnati ad affrontare la paurosa minaccia di cinquemila immigrati irregolari di troppo e da queste gravi preoccupazioni non possono certo lasciarsi distogliere. In tempi di guerra normale, c'è posto anche per la normale imbecillità.
03.04.'11
Carlo Oliva
Carlo Oliva
, milanese, nato nel 1943, è sostanzialmente un eclettico.
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